Galileo Galilei (Pisa, 15 febbraio 1564 – Arcetri, 8 gennaio 1642) è stato un fisico, astronomo, filosofo, matematico e accademico italiano, considerato il padre della scienza moderna. Personaggio chiave della rivoluzione scientifica, per aver esplicitamente introdotto il metodo scientifico (detto anche metodo galileiano o metodo sperimentale), il suo nome è associato a importanti contributi in fisica e in astronomia. Di primaria importanza fu anche il ruolo svolto nella rivoluzione astronomica, con il sostegno al sistema eliocentrico e alla teoria copernicana.
I suoi principali contributi al pensiero filosofico derivano dall'introduzione del metodo sperimentale nell'indagine scientifica grazie a cui la scienza abbandonava, per la prima volta, quella posizione metafisica che fino ad allora predominava, per acquisire una nuova, autonoma prospettiva, sia realistica che empiristica, volta a privilegiare – attraverso il metodo sperimentale – più la categoria della quantità che della qualità nella descrizione razionale della realtà fenomenica.
Sospettato di eresia e accusato di voler sovvertire la filosofia naturale aristotelica e le Sacre Scritture, Galilei fu processato e condannato dal Sant'Uffizio, nonché costretto, il 22 giugno 1633, all'abiura delle sue concezioni astronomiche e al confino nella propria villa di Arcetri. Solo 359 anni dopo, il 31 ottobre 1992, papa Giovanni Paolo II, alla sessione plenaria della Pontificia accademia delle scienze, riconobbe "gli errori commessi" sulla base delle conclusioni dei lavori cui pervenne un'apposita commissione di studio da lui istituita nel 1981, riabilitando Galilei.
La famiglia d'origine e la nascita
Galileo Galilei nacque il 15 febbraio 1564 a Pisa, primogenito dei sette figli di Vincenzo Galilei e di Giulia Ammannati. Gli Ammannati, originari del territorio di Pistoia e di Pescia, vantavano importanti origini;[N 8] Vincenzo Galilei invece apparteneva ad una più umile casata, per quanto i suoi antenati facessero parte della buona borghesia fiorentina. Vincenzo era nato a Santa Maria a Monte nel 1520, quando ormai la sua famiglia era decaduta ed egli, musicista di valore, dovette trasferirsi a Pisa unendo all'esercizio dell'arte della musica, per necessità di maggiori guadagni, la professione del commercio.
La famiglia di Vincenzo e di Giulia, contava oltre Galileo: Michelangelo, che fu musicista presso il granduca di Baviera, Benedetto, morto in fasce, e tre sorelle, Virginia, Anna e Livia e forse anche una quarta di nome Lena.
Primi studi e scoperte
Dopo un tentativo fallito di inserire Galileo tra i quaranta studenti toscani che venivano accolti gratuitamente in un convitto dell'Università di Pisa, il giovane fu ospitato "senza spese" da Muzio Tebaldi, doganiere della città di Pisa, padrino di battesimo di Michelangelo, e tanto amico di Vincenzo da provvedere alle necessità della famiglia durante le sue lunghe assenze per lavoro.
A Pisa, Galileo conobbe la giovane cugina Bartolomea Ammannati che curava la casa del rimasto vedovo Tebaldi il quale, nonostante la forte differenza d'età, la sposò nel 1578 probabilmente per metter fine alle malignità, imbarazzanti per la famiglia Galilei, che si facevano sul conto della giovane nipote. Successivamente il giovane Galileo fece i suoi primi studi a Firenze, prima col padre, poi con un maestro di dialettica e infine nella scuola del convento di Santa Maria di Vallombrosa, dove vestì l'abito di novizio fino all'età di quattordici anni.
Il matematico Ostilio Ricci
Vincenzo, il 5 settembre 1580, iscrisse il figlio all'Università di Pisa con l'intenzione di fargli studiare medicina, per fargli ripercorrere la tradizione del suo glorioso antenato Galileo Bonaiuti e soprattutto per fargli intraprendere una carriera che poteva procurare lucrosi guadagni.
Nonostante il suo interesse per i progressi sperimentali di quegli anni, l'attenzione di Galileo fu presto attratta dalla matematica, che cominciò a studiare dall'estate del 1583, sfruttando l'occasione della conoscenza fatta a Firenze di Ostilio Ricci da Fermo, un seguace della scuola matematica di Niccolò Tartaglia. Caratteristica del Ricci era l'impostazione che egli dava all'insegnamento della matematica: non di una scienza astratta, ma di una disciplina che servisse a risolvere i problemi pratici legati alla meccanica e alle tecniche ingegneristiche. Fu, infatti, la linea di studio "Tartaglia-Ricci" (prosecutrice, a sua volta, della tradizione facente capo ad Archimede) a insegnare a Galileo l'importanza della precisione nell'osservazione dei dati e il lato pragmatico della ricerca scientifica. È probabile che a Pisa, Galileo abbia seguito anche i corsi di fisica
tenuti dall'aristotelico Francesco Bonamici.
Pendolo di Galilei a Pisa
Durante la sua permanenza a Pisa, protrattasi fino al 1585, Galileo arrivò alla sua prima, personale scoperta, l'isocronismo delle oscillazioni del pendolo, di cui continuerà ad occuparsi per tutta la vita, cercando di perfezionarne la formulazione matematica.
Dopo quattro anni il giovane Galileo rinunciò a proseguire gli studi di medicina a Pisa e andò a Firenze, dove approfondì i suoi nuovi interessi scientifici, occupandosi di meccanica e di idraulica. Nel 1586 trovò anche una soluzione al problema della corona di Gerone inventando uno strumento per la determinazione idrostatica del peso specifico dei corpi. L'influsso di Archimede e dell'insegnamento del Ricci si rileva anche nei suoi studi sul centro di gravità dei solidi.
Galileo cercava intanto una regolare sistemazione economica: oltre a impartire lezioni private di matematica a Firenze e a Siena, nel 1587 andò a Roma a richiedere una raccomandazione per entrare nello Studio di Bologna al famoso matematico Christoph Clavius, ma inutilmente, perché a Bologna gli preferirono alla cattedra di matematica il padovano Giovanni Antonio Magini. Su invito dell'Accademia Fiorentina tenne nel 1588 due Lezioni circa la figura, sito e grandezza dell'Inferno di Dante, difendendo le ipotesi già formulate da Antonio Manetti sulla topografia dell'Inferno immaginato da Dante.
L'insegnamento a Pisa (1589-1592)
Guidobaldo Del Monte
Galilei si rivolse allora all'influente amico Guidobaldo Del Monte, matematico conosciuto tramite uno scambio epistolare su questioni matematiche. Guidobaldo fu fondamentale nell'aiutare Galilei a progredire nella carriera universitaria, quando, superando l'inimicizia di Giovanni de' Medici, un figlio naturale di Cosimo de' Medici, lo raccomandò al fratello cardinale Francesco Maria Del Monte, che a sua volta parlò con il potente Duca di Toscana, Ferdinando I de' Medici. Sotto la sua protezione, Galileo ebbe nel 1589 un contratto triennale per una cattedra di matematica all'Università di Pisa, dove espose chiaramente il suo programma pedagogico, procurandosi subito una certa ostilità nell'ambiente accademico di formazione aristotelica:
«Il metodo che seguiremo sarà quello di far dipendere quel che si dice da quel che si è detto, senza mai supporre come vero quello che si deve spiegare. Questo metodo me l'hanno insegnato i miei matematici, mentre non è abbastanza osservato da certi filosofi quando insegnano elementi fisici... Per conseguenza quelli che imparano, non sanno mai le cose dalle loro cause, ma le credono solamente per fede, cioè perché le ha dette Aristotele. Se poi sarà vero quello che ha detto Aristotele, sono pochi quelli che indagano; basta loro essere ritenuti più dotti perché hanno per le mani maggior numero di testi aristotelici ... che una tesi sia contraria all'opinione di molti, non m'importa affatto, purché corrisponda alla esperienza e alla ragione.»
Cortile dello Studio di Pisa
Frutto dell'insegnamento pisano è il manoscritto De motu antiquiora, che raccoglie una serie di lezioni nelle quali egli cerca di dar conto del problema del movimento. Base delle sue ricerche è il trattato, pubblicato a Torino nel 1585, Diversarum speculationum mathematicarum liber di Giovanni Battista Benedetti, uno dei fisici sostenitori della teoria dell'«impeto» come causa del «moto violento». Benché non si sapesse definire la natura di un tale impeto impresso ai corpi, questa teoria, elaborata per la prima volta nel VI secolo da Giovanni Filopono e poi sostenuta dai fisici parigini, pur non essendo in grado di risolvere il problema, si opponeva alla tradizionale spiegazione aristotelica del movimento come prodotto del mezzo nel quale i corpi stessi si muovono.
A Pisa Galilei non si limitò alle sole occupazioni scientifiche: risalgono infatti a questo periodo le sue Considerazioni sul Tasso che avranno un seguito con le Postille all'Ariosto: si tratta di note sparse su fogli e annotazioni a margine nelle pagine dei suoi volumi della Gerusalemme e dell’Orlando furioso dove, mentre rimprovera al Tasso «la scarsezza della fantasia e la monotonia lenta dell'immagine e del verso, ciò che ama nell'Ariosto non è solo lo svariare dei bei sogni, il mutar rapido delle situazioni, la viva elasticità del ritmo, ma l'equilibrio armonico di questo, la coerenza dell'immagine l'unità organica – pur nella varietà – del fantasma poetico».
Nell'estate del 1591 il padre Vincenzo morì, lasciando a Galileo l'onere di mantenere tutta la famiglia: per il matrimonio della sorella Virginia, sposatasi quello stesso anno, Galileo dovette provvedere alla dote, contraendo dei debiti, così come dovrà fare per le nozze della sorella Livia nel 1601 con Taddeo Galletti, e altri denari dovrà spendere per soccorrere le necessità della
numerosa famiglia del fratello Michelangelo.
Guidobaldo Del Monte intervenne ad aiutare nuovamente Galilei nel 1592, raccomandandolo al prestigioso Studio di Padova, dove era ancora vacante la cattedra di matematica dopo la morte, nel 1588, di Giuseppe Moleti.
Il 26 settembre 1592 le autorità della Repubblica di Venezia emanarono il decreto di nomina, con un contratto, prorogabile, di quattro anni e con uno stipendio di 180 fiorini l'anno. Il 7 dicembre Galilei tenne a Padova il discorso introduttivo e dopo pochi giorni cominciò un corso destinato ad avere un grande seguito presso gli studenti. Vi resterà per diciotto anni, che definirà «li diciotto anni migliori di tutta la mia età». Galilei arriva nella Repubblica di Venezia solo pochi mesi dopo l'arresto di Giordano Bruno (23 maggio 1592) a Venezia.
Il periodo padovano (1592-1610)
Paolo Sarpi
Nel dinamico ambiente dello Studio di Padova – risultato anche del clima di relativa tolleranza religiosa garantito dalla Repubblica veneziana – Galilei intrattenne rapporti cordiali anche con personalità di orientamento filosofico e scientifico lontano dal suo, come il docente di filosofia naturale Cesare Cremonini, filosofo rigorosamente aristotelico. Frequentò anche i circoli colti e gli ambienti senatoriali di Venezia, dove strinse amicizia con il nobile Giovanfrancesco Sagredo, che Galilei renderà protagonista del suo Dialogo sopra i massimi sistemi, e con Paolo Sarpi, teologo ed esperto altresì di matematica e di astronomia. È contenuta proprio nella lettera indirizzata il 16 ottobre 1604 al frate servita la formulazione della legge sulla caduta dei gravi:
«gli spazii passati dal moto naturale esser in proportione doppia dei tempi, e per conseguenza gli spazii passati in tempi eguali esser come ab unitate, et le altre cose. Et il principio è questo: che il mobile naturale vadia crescendo di velocità con quella proportione che si discosta dal principio del suo moto .»
Galileo aveva tenuto a Padova lezioni di meccanica dal 1598: il suo Trattato di meccaniche, stampato a Parigi nel 1634, dovrebbe essere il risultato dei suoi corsi, che avevano avuto origine dalle Questioni meccaniche di Aristotele.
Nello Studio di Padova Galileo attrezzò, con l'aiuto di Marcantonio Mazzoleni, un artigiano che abitava nella sua stessa casa, una piccola officina nella quale eseguiva esperimenti e fabbricava strumenti che vendeva per arrotondare lo stipendio. È del 1593 la macchina per portare l'acqua a livelli più alti, per la quale ottenne dal Senato veneto un brevetto ventennale per la sua utilizzazione pubblica. Dava anche lezioni private – suoi allievi furono, tra gli altri, Vincenzo Gonzaga, il principe d'Alsazia Giovanni Federico, i futuri cardinali Guido Bentivoglio e Federico Cornaro – e ottenne aumenti di stipendio: dai 320 fiorini percepiti annualmente nel 1598, passò ai 1.000 ottenuti nel 1609.
Il cannocchiale
«Non basta guardare, occorre guardare con occhi che vogliono vedere, che credono in quello che vedono.»
(Galileo Galilei)
Non sembra che, negli anni della polemica sulla "nuova stella", Galilei si fosse già pubblicamente pronunciato a favore della teoria copernicana: si ritiene[45] che egli, pur intimamente convinto copernicano, pensasse di non disporre ancora di prove sufficientemente forti da ottenere invincibilmente l'assenso della universalità degli studiosi. Aveva, tuttavia, espresso privatamente la propria adesione al copernicanesimo già nel 1597: in quell'anno, infatti, a Keplero – che aveva recentemente pubblicato il suo Prodromus dissertationum cosmographicarum – scriveva di essere copernicano da molti anni e di aver prove (che però non espose) a sostegno di Copernico, «praeceptoris nostri».
Le prove a sostegno della teoria copernicana potevano essere offerte solo dopo meticolose osservazioni e lo strumento che le avrebbe rese possibili era stato appena inventato. Di ottica si erano occupati Giovanni Battista Della Porta[N 30] nella sua Magia naturalis (1589) e nel De refractione (1593), e Keplero negli Ad Vitellionem paralipomena, del 1604, opere dalle quali era possibile pervenire alla costruzione del cannocchiale: ma lo strumento fu costruito per la prima volta, indipendentemente da quegli studi nei primi anni del XVII secolo dall'artigiano Hans Lippershey, noto anche come Johann Lippershey o Lipperhey (Wesel, 1570 – Middelburg, settembre 1619), un ottico tedesco naturalizzato olandese. Galileo ne ebbe notizia – e forse anche un esemplare – nella primavera del 1609 e, ricostruito e potenziato empiricamente, il 21 agosto lo presentò come propria invenzione al governo veneziano che, apprezzando l'«invenzione», gli raddoppiò lo stipendio e gli offrì un contratto vitalizio d'insegnamento. Il telescopio avvicinava le cose lontane, poteva vincere la lontananza dai sensi che da sempre rappresentava un ostacolo per l'osservazione del cielo. Lo strumento che serviva per il diletto degli uomini di corte diventa, con Galileo, un alleato della scienza. Lo scienziato pisano si pone in antitesi al tradizionale punto di vista antropocentrico in base al quale la conoscenza è data, nell'immediato, dalle percezioni dell'uomo. «Far entrare gli strumenti nella scienza - scrive al riguardo Paolo Rossi - concepirli come fonti di verità non fu una facile impresa. Vedere, nella scienza del nostro tempo, vuol dire, quasi esclusivamente, interpretare segni generati da strumenti. Alle origini di ciò che oggi vediamo nei cieli c'è un iniziale, solitario gesto di coraggio intellettuale».
Frontespizio del Sidereus Nuncius (1610)
Per tutto il resto di quell'anno Galileo s'impegnò nelle osservazioni astronomiche: acquisì informazioni più precise sui monti lunari, sulla composizione della Via Lattea e scoprì i quattro maggiori satelliti di Giove. Le nuove scoperte furono pubblicate il 12 marzo del 1610 nel Sidereus Nuncius, una copia del quale Galileo inviò al granduca di Toscana Cosimo II, già suo allievo, insieme con un esemplare del suo cannocchiale e la dedica dei quattro satelliti, battezzati da Galileo in un primo tempo Cosmica Sidera e successivamente Medicea Sidera («pianeti medicei»). È evidente l'intenzione di Galileo di guadagnarsi la gratitudine della Casa medicea, molto probabilmente non soltanto ai fini del suo intento di ritornare a Firenze, ma anche per ottenere un'influente protezione in vista della presentazione, di fronte al pubblico degli studiosi, di quelle novità, che certo non avrebbero mancato di sollevare polemiche.
Gli ultimi anni (1633-1642)
La sentenza di condanna prevedeva un periodo di carcere a discrezione del Sant'Uffizio e l'obbligo di recitare per tre anni, una volta alla settimana, i salmi penitenziali. Il rigore letterale fu mitigato nei fatti: la prigionia consistette nel soggiorno coatto per cinque mesi presso la residenza romana dell'ambasciatore del Granduca di Toscana, Pietro Niccolini, a Trinità dei Monti e di qui, nella casa dell'arcivescovo Ascanio Piccolomini a Siena, su richiesta di questi. Quanto ai salmi penitenziali, Galileo incaricò di recitarli, con il consenso della Chiesa, la figlia Maria Celeste, suora di clausura. A Siena il Piccolomini favorì Galileo permettendogli di incontrare personalità della città e di dibattere questioni scientifiche. A seguito di una lettera anonima che denunciò l'operato dell'arcivescovo e dello stesso Galileo, il Sant'Uffizio provvide, accogliendo una stessa richiesta avanzata in precedenza da Galilei, a confinarlo nell'isolata villa («Il Gioiello») che lo scienziato possedeva nella campagna di Arcetri. Nell'ordine del 1º dicembre 1633 si intimava a Galileo di «stare da solo, di non chiamare né di ricevere alcuno, per il tempo ad arbitrio di Sua Santità». Solo i familiari potevano fargli visita, dietro preventiva autorizzazione: anche per questo motivo gli fu particolarmente dolorosa la perdita della figlia suor Maria Celeste, l'unica con cui avesse mantenuto legami, avvenuta il 2 aprile 1634.
Poté tuttavia mantenere corrispondenza con amici ed estimatori, anche fuori d'Italia: a Elia Diodati, a Parigi, scrisse il 7 marzo 1634, consolandosi delle sue sventure che «l'invidia e la malignità mi hanno machinato contro» con la considerazione che «l'infamia ricade sopra i traditori e i costituiti nel più sublime grado dell'ignoranza». Dal Diodati seppe della traduzione in latino che Matthias Bernegger andava facendo a Strasburgo del suo Dialogo e gli riferì di «un tal Antonio Rocco... purissimo peripatetico, e remotissimo dall'intender nulla né di matematica né d'astronomia» che scriveva a Venezia «mordacità e contumelie» contro di lui. Questa, e altre lettere, dimostrano quanto poco Galileo avesse rinnegato le proprie convinzioni copernicane.
Dopo il processo del 1633 Galilei scrisse e pubblicò nei Paesi Bassi[N 46] nel 1638 un grande trattato scientifico dal titolo Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti la mecanica e i moti locali grazie al quale lo si considera il padre della scienza moderna. È organizzato come un dialogo che si svolge in quattro giornate fra i tre medesimi protagonisti del precedente Dialogo dei massimi sistemi (Sagredo, Salviati e Simplicio).
Nella prima giornata, Galileo tratta della resistenza dei materiali: la diversa resistenza deve essere legata alla struttura della particolare materia e Galileo, pur senza pretendere di pervenire a una spiegazione del problema, affronta l'interpretazione atomistica di Democrito, considerandola un'ipotesi capace di rendere conto di fenomeni fisici. In particolare, la possibilità dell'esistenza del vuoto – prevista da Democrito – viene ritenuta una seria ipotesi scientifica e nel vuoto – ossia nell'inesistenza di un qualunque mezzo in grado di opporre resistenza – Galileo sostiene giustamente che tutti i corpi «discenderebbero con eguale velocità», in opposizione con la scienza contemporanea che riteneva l'impossibilità del moto nel vuoto.
Dopo aver trattato della statica e della leva nella seconda giornata, nella terza e nella quarta si occupa della dinamica, stabilendo le leggi del moto uniforme, del moto naturalmente accelerato e del moto uniformemente accelerato e delle oscillazioni del pendolo.
Negli ultimi anni di vita, Galilei intraprende un'affettuosa corrispondenza con Alessandra Bocchineri.[N 47] La famiglia Bocchineri di Prato aveva dato nel 1629 una giovane, di nome Sestilia, sorella di Alessandra, per moglie al figlio di Galilei, Vincenzio.
Quando Galilei, nel 1630, ormai sessantaseienne, incontra Alessandra,[N 48] questa è una donna di 33 anni che si è affinata e ha coltivato la sua intelligenza come dama d'onore della imperatrice Eleonora Gonzaga presso la corte viennese dove conosce e sposa Giovanni Francesco Buonamici, un importante diplomatico che diventerà buon amico di Galilei.
Nella corrispondenza Alessandra e Galilei si scambiano numerosi inviti per incontrarsi e Galilei non manca di elogiare l'intelligenza della donna dato che «sì rare si trovano donne che tanto sensatamente discorrino come ella fa».[64][65][66] Con la cecità e l'aggravarsi delle condizioni di salute[N 49] lo scienziato fiorentino è costretto talvolta a rifiutare gli inviti «non solo per le molte indisposizioni che mi tengono oppresso in questa mia gravissima età, ma perché son ritenuto ancora in carcere, per quelle cause che benissimo son note».[67][68]
L'ultima lettera mandata ad Alessandra nel 20 dicembre del 1641 di "non volontaria brevità"[N 50] precede di poco la morte di Galilei che sopraggiungerà 19 giorni dopo nella notte dell'8 gennaio 1642 ad Arcetri, assistito da Viviani e Torricelli.
Dopo la morte
«Vide / sotto l'etereo padiglion rotarsi / più mondi, e il Sole irradïarli immoto,
onde all'Anglo che tanta ala vi stese / sgombrò primo le vie del firmamento.»
(Ugo Foscolo, Dei sepolcri, vv. 165-169)
Galilei venne tumulato nella Basilica di Santa Croce a Firenze insieme ad altri grandi come Machiavelli e Michelangelo ma non fu possibile innalzargli l'«augusto e suntuoso deposito» desiderato dai discepoli, perché il 25 gennaio il nipote di Urbano VIII, il cardinale Francesco Barberini, scrisse all'inquisitore di Firenze Giovanni Muzzarelli di «far passare all'orecchie del Gran Duca che non è bene fabbricare mausolei al cadavero di colui che è stato penitentiato nel Tribunale della Santa Inquisitione, ed è morto mentre durava la penitenza nell'epitaffio o iscrittione che si porrà nel sepolcro, non si leggano parole tali che possano offendere la reputatione di questo Tribunale. La medesima avvertenza dovrà pur ella avere con chi reciterà l'oratione funebre...».
La Chiesa mantenne la sorveglianza anche nei confronti degli allievi di Galileo: quando questi diedero vita all'Accademia del Cimento, essa intervenne presso il Granduca e l'Accademia fu sciolta nel 1667. Soltanto nel 1737, Galileo Galilei fu onorato con un monumento funebre in Santa Croce, che sarà celebrato da Ugo Foscolo.
Eliocentrismo, scienza e teologia
Convinto della correttezza della cosmologia copernicana, Galileo era ben consapevole che essa era ritenuta in contraddizione con il testo biblico e la tradizione dei Padri della Chiesa, che sostenevano invece una concezione geocentrica dell'universo. Poiché la Chiesa considerava le Sacre Scritture ispirate dallo Spirito Santo, la teoria eliocentrica poteva essere accettata, fino a prova contraria, soltanto come semplice ipotesi (ex suppositione) o modello matematico, senza alcuna attinenza con la reale posizione dei corpi celesti. Proprio a questa condizione il De revolutionibus orbium coelestium di Copernico non era stato condannato dalle autorità ecclesiastiche e menzionato nell'Indice dei libri proibiti, almeno fino al 1616.
Galileo, intellettuale cattolico, si inserì nel dibattito sul rapporto fra scienza e fede con la lettera a padre Benedetto Castelli del 21 dicembre1613. Egli difese il modello copernicano sostenendo che esistono due verità necessariamente non in contraddizione o in conflitto fra loro. La Bibbia è certamente un testo sacro di ispirazione divina e dello Spirito Santo, ma comunque scritto in un preciso momento storico con lo scopo di orientare il lettore verso la comprensione della vera religione. Per questa ragione, come già avevano sostenuto molti esegeti tra i quali Lutero e Keplero, i fatti della Bibbia sono stati necessariamente scritti in modo tale da poter essere compresi anche dagli antichi e dalla gente comune. Occorre quindi discernere, come già sostenuto da Agostino d'Ippona, il messaggio propriamente religioso dalla descrizione, storicamente connotata ed inevitabilmente narrativa e didascalica, di fatti, episodi e personaggi:
«Dal che seguita, che qualunque volta alcuno, nell'esporla, volesse fermarsi sempre nel nudo suono litterale, potrebbe, errando esso, far apparire nelle Scritture non solo contraddizioni e proposizioni remote dal vero, ma gravi eresie e bestemmie ancora: poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali ed umani, come d'ira, di pentimento, d'odio ed anco tal volta la dimenticanza delle cose passate e l'ignoranza delle future...»
(Galileo Galilei,)
Il noto episodio biblico della richiesta di Giosuè a Dio di fermare il Sole per prolungare il giorno era usato in ambito ecclesiastico a sostegno del sistema geocentrico. Galileo sostenne invece che in quel modo il giorno non si sarebbe allungato, in quanto nel sistema tolemaico la rotazione diurna (giorno/notte) non dipende dal Sole, ma dalla rotazione del Primum Mobile. La Bibbia deve essere reinterpretata e «bisogna alterar il senso delle parole, e dire che quando la Scrittura dice che Iddio fermò il Sole, voleva dire che fermò 'l primo mobile, ma che, per accomodarsi alla capacità di quei che sono a fatica idonei a intender il nascere e 'l tramontar del Sole, ella dicesse al contrario di quel che avrebbe detto parlando a uomini sensati». Invece, secondo Galileo, nel sistema copernicano la rotazione del Sole sul proprio asse provoca sia la rivoluzione della Terra attorno al Sole, sia la rotazione diurna (giorno/notte) della Terra attorno all'asse terrestre (ipotesi poi mostratesi entrambe errate). Quindi, scrive Galileo, l'episodio biblico «ci mostra manifestamente la falsità e impossibilità del mondano sistema Aristotelico e Tolemaico, e all'incontro benissimo s'accomoda co 'l Copernicano». Infatti se Dio avesse fermato il Sole assecondando la richiesta di Giosuè, ne avrebbe necessariamente bloccato la rotazione assiale (unico suo movimento previsto nel sistema copernicano), provocando di conseguenza - secondo Galileo - l'arresto sia della (ininfluente) rivoluzione annuale, sia della rotazione terrestre diurna prolungando quindi la durata del giorno. A questo proposito, è interessante la critica proposta da Arthur Koestler, in cui sostiene che Galileo "sapeva meglio di chiunque altro che se la terra si fermasse bruscamente, montagne, case, città, crollebbero come un castello di carte; il più ignorante dei frati, senza sapere nulla del momento di inerzia, sapeva benissimo quel che succedeva quando i cavalli e la carrozza frenavano di colpo o quando una nave finiva contro gli scogli. Se si interpretava la Bibbia secondo Tolomeo, il brusco arresto del Sole non aveva effetti fisici degni di nota e il miracolo rimaneva credibile al pari di qualsiasi altro miracolo; in base all'interpretazione di Galileo, Giosuè avrebbe distrutto non soltanto gli Amorrei, ma la terra intera. Sperando di far passare queste sciocchezze penose, Galileo rivelava il suo disprezzo per gli avversari". Galileo fece analoghe considerazioni in lettere indirizzate al fiorentino monsignor Piero Dini e alla granduchessa Cristina di Lorena, le quali destarono preoccupazione negli ambienti conservatori per le idee innovative, il carattere polemico e l'ardimento coi quali lo scienziato sosteneva che alcuni passi della Bibbia dovessero venir reinterpretati alla luce del sistema copernicano, all'epoca non ancora dimostrato.
Per Galileo le Sacre Scritture si occupano di Dio; il metodo per condurre le indagini sulla Natura deve fondarsi su «sensate esperienze» e «necessarie dimostrazioni». La Bibbia e la Natura non possono contraddirsi perché derivano entrambe da Dio; di conseguenza, in caso di discordia apparente, non sarà la scienza a dover fare un passo indietro, bensì gli interpreti del testo sacro che dovranno cercare al di là del significato superficiale di quest'ultimo. In altri termini, come spiega lo studioso di Galilei Andrea Battistini, «il testo biblico è conforme soltanto "al comun modo del volgo", ossia si adatta non già alle competenze degli "intendenti", ma ai limiti conoscitivi dell'uomo comune, velando così con una sorta di allegoria il senso più profondo degli enunciati. Se il messaggio letterale può divergere dagli enunciati della scienza, non lo può mai il suo contenuto "recondito" e più autentico, ricavabile dall'interpretazione del testo biblico oltre i suoi significati più epidermici». Circa il rapporto tra scienza e teologia, celebre è la sua frase: «intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado, l'intenzione dello Spirito Santo essere d'insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo«, usualmente attribuita al cardinale Cesare Baronio. Si noti che, applicando tale criterio, Galileo non avrebbe potuto usare il passo biblico di Giosuè per cercare di dimostrare un presunto accordo tra testo sacro e sistema copernicano, e la supposta contraddizione tra la Bibbia e il modello tolemaico. Deriva invece proprio da tale criterio la visione galileiana secondo la quale esistono due sorgenti di conoscenza ("libri"), che sono in grado di rivelare la stessa verità che proviene da Dio. Il primo è la Bibbia, scritta in termini comprensibili al volgo, che ha essenzialmente valore salvifico e di redenzione dell'anima, e richiede quindi un'attenta interpretazione delle affermazioni relative ai fenomeni naturali che in essa sono descritti. Il secondo è «questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), scritto in lingua matematica», che va letto secondo la razionalità scientifica e non va posposto al primo ma, per essere ben interpretato, deve essere studiato con gli strumenti di cui il medesimo Dio della Bibbia ci ha dotati: sensi, discorso e intelletto:
«[...] nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalla autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie: perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio ...»
(Galileo Galilei,)
Sempre nella lettera alla granduchessa Cristina di Lorena del 1615, alla domanda se la teologia potesse ancora essere concepita come la regina delle scienze, Galilei rispose che l'oggetto di cui trattava la teologia la rendeva d'importanza primaria, ma che questa non poteva pretendere di pronunciare giudizi nel campo delle verità della scienza. Al contrario, se un certo fatto o fenomeno scientificamente dimostrato non si accorda con i testi sacri, allora sono questi che devono essere riletti alla luce dei nuovi progressi e delle nuove scoperte.
Secondo la dottrina galileiana delle due verità non vi può essere, in definitiva, disaccordo tra vera scienza e vera fede essendo, per definizione, entrambe vere. Ma, in caso di apparente contraddizione su fatti naturali, occorre modificare l'interpretazione del testo sacro per adeguarla alle conoscenze scientifiche più aggiornate.
La posizione della Chiesa al riguardo non differiva sostanzialmente da quella di Galileo: con molte più cautele, anche la Chiesa cattolica ammetteva la necessità di rivedere l'interpretazione delle sacre scritture alla luce di fatti nuovi e nuove conoscenze solidamente comprovate. Ma nel caso del sistema copernicano, il cardinal Roberto Bellarmino e molti altri teologi cattolici sostennero, ragionevolmente, che non vi fossero prove conclusive a suo favore:
«La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.»
(Galileo Galilei)
La mancata osservazione, con gli strumenti allora disponibili, della parallasse stellare (che si sarebbe dovuta riscontrare come effetto dello spostamento della Terra rispetto al cielo delle stelle fisse) costituiva invece, all'epoca, evidenza contraria alla teoria eliocentrica. In tale contesto, la Chiesa ammetteva quindi che si parlasse del modello copernicano solo ex suppositione (come ipotesi matematica). La difesa di Galileo ex professo (con cognizione di causa e competenza, di proposito e intenzionalmente) della teoria copernicana quale reale descrizione fisica del sistema solare e delle orbite dei corpi celesti si scontrò quindi, inevitabilmente, con la posizione ufficiale della Chiesa cattolica. Tale contrapposizione sfociò nel processo a Galileo Galilei del 1633, che si concluse con la condanna per eresia e l'abiura forzata delle sue concezioni astronomiche.
Riabilitazione da parte della Chiesa cattolica
Al di là dal giudizio storico, giuridico e morale sulla condanna a Galilei, le questioni di carattere epistemologico e di ermeneutica biblica che furono al centro del processo sono state oggetto di riflessione da parte di innumerevoli pensatori moderni, che spesso hanno citato la vicenda di Galileo per esemplificare, talora in termini volutamente paradossali, il loro pensiero in merito a tali questioni. Ad esempio, il filosofo austriaco Paul Feyerabend, sostenitore di una teoria anarchica della conoscenza, sostenne:
«La Chiesa dell'epoca di Galilei si attenne alla ragione più che lo stesso Galilei, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galilei fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione»
Questa provocazione sarà poi ripresa dal card. Ratzinger, dando luogo a contestazioni da parte dell'opinione pubblica[83]. Ma il vero scopo per cui Feyerabend aveva espresso tale provocatoria affermazione era
«solo mostrare la contraddizione di coloro che approvano Galileo e condannano la Chiesa, ma poi verso il lavoro dei loro contemporanei sono rigorosi come lo era la Chiesa ai tempi di Galileo.»
Nel corso dei secoli che seguirono la Chiesa modificò la propria posizione nei confronti di Galilei: nel 1734 il Sant'Uffizio concesse l'erezione di un mausoleo in suo onore nella chiesa di Santa Croce in Firenze; Benedetto XIV nel 1757 tolse dall'Indice i libri che insegnavano il moto della Terra, con ciò ufficializzando quanto già di fatto aveva fatto papa Alessandro VII nel 1664 con il ritiro del Decreto del 1616. La definitiva autorizzazione all'insegnamento del moto della Terra e dell'immobilità del Sole arrivò con un decreto della Sacra Congregazione dell'inquisizione approvato da Papa Pio VII il 25 settembre 1822.
Nel 1968 papa Paolo VI fece avviare la revisione del processo e con l'intento di porre una parola definitiva riguardo a queste polemiche Papa Giovanni Paolo II il 3 luglio 1981, auspicò che fosse intrapresa una ricerca interdisciplinare sui difficili rapporti di Galileo con la Chiesa e istituì una Commissione Pontificia per lo studio della controversia tolemaico-copernicana del XVI e del XVII secolo, nella quale il caso Galilei si inserisce.
Dopo ben tredici anni di dibattimento, il 31 ottobre 1992, la Chiesa cancellò la condanna, formalmente ancora esistente[85], e chiarì la sua interpretazione sulla questione teologica scientifica galileiana riconoscendo che la condanna di Galileo Galilei fu dovuta all'ostinazione di entrambe le parti nel non voler considerare le rispettive teorie come semplici ipotesi non comprovate sperimentalmente e, d'altra parte, alla «mancanza di perspicacia», ovvero di intelligenza e lungimiranza, dei teologi che lo condannarono, incapaci di riflettere sui propri criteri di interpretazione della Scrittura e responsabili di aver inflitto molte sofferenze allo scienziato. Come disse infatti Giovanni Paolo II.
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