Ecco un estratto sul dialogo Rifkin-Petrini apparso su La Repubblica del 9/6/10...
Petrini: Caro Jeremy, trovo ci siano straordinarie similitudini e parallelismi tra la nuova politica energetica che tu promuovi e la nuova politica alimentare che cerchiamo di portare avanti con Slow Food. La politica alimentare, infatti, si deve basare sul concetto che l’energia primaria della vita è il cibo. Se il cibo è energia allora dobbiamo prendere atto che l’attuale sistema di produzione alimentare è fallimentare. Le prime due idee che secondo me condividiamo sono il rifiuto di sistemi troppo centralizzati e il ritorno a una concezione olistica della nostra esistenza su questo pianeta. Il vero problema è che da un lato c’è una visione centralizzata dell’agricoltura, fatta di monoculture e allevamenti intensivi altamente insostenibili, e dall’altro è stata completamente rifiutata la logica olistica, che dovrebbe essere innata in agricoltura, per sposare logiche meccaniciste e riduzioniste. Una visione meccanicista finisce con il ridurre il valore del cibo a una mera commodity, una semplice merce. È per questo che per quanto riguarda il cibo abbiamo ormai perso la percezione della differenza tra valore e prezzo: facciamo tutti molta attenzione a quanto costa, ma non più al suo profondo significato. Inoltre, con questo sistema, abbiamo ridotto i contadini in ogni angolo del mondo alla disperazione. Non si può più andare avanti in questo modo, bisogna cambiare paradigma.
Rifkin: È interessante quello che dici Carlo, perché nei corsi che io tengo ai supermanager di grandi imprese globali alla più antica Scuola di Economia del mondo (Warthon in Pennsylvania ndr) miro proprio a ri-orientare il pensiero. La prima cosa che dico sempre è che la base dell’economia del pianeta è la fotosintesi. Con l’energia del sole creiamo la vita. Esistiamo soltanto da 175.000 anni e rappresentiamo solo lo 0.5 per cento dell’intera biomassa vivente sul pianeta, ma stiamo usando il 24% di tutta l’energia generata dalla fotosintesi sulla Terra. Siamo mostri. Stiamo divorando il nostro pianeta. Continuando di questo passo nei prossimi 20 o 30 anni arriveremo a usare la metà della fotosintesi del pianeta. Non ce la faremo. L’agricoltura in questo processo è centrale, perché è la base della civilizzazione, senza di essa nessuna cultura esisterebbe. Solo se hai una forte società agricola puoi procedere a creare una società industriale sopra questa struttura. E quindi una società di servizi. Se la base crolla, l’agricoltura basata sulla fotosintesi, tutta la piramide collassa.
Noi produciamo il nostro cibo in un sistema energetico molto centralizzato, con una grandissima dissipazione di energie fossili. Queste energie sono concentrate e distribuite dal centro verso la periferia. Il loro sfruttamento presuppone un'alta intensità di capitali che ne determina un’organizzazione verticistica. Viviamo in un regime energetico, tra i più patriarcali e centralizzati della storia. Hai ragione, l’agricoltura per sua natura non è centralizzata. Invece si è cercato di trasformarla per renderla compatibile con questo regime energetico: si è creata l’”agro-industria” e abbiamo completamente divorziato dalla natura, quasi che l’ambiente fosse il nemico. Non è un caso che abbiamo sviluppato gli attuali pesticidi dopo la seconda guerra mondiale, prima li abbiamo utilizzati per fare la guerra e poi per l’agricoltura. La nostra agricoltura è basata su un modello di guerra. Invece ciò che m’impressiona di più del movimento Slow Food è proprio l’approccio olistico nei confronti del cibo.
P: Pensa che per questo molte volte ci accusano di passatismo. Però io credo che il passato non si debba dimenticare. Per esempio sarebbe necessario tornare a quello che era l’atteggiamento dei contadini quando prendevano coscienza del loro fondo e progettavano le attività che dovevano impiantarvi. Lo guardavano attentamente e stabilivano dove era meglio mettere un orto; magari dietro la cascina dov’è più ombroso allevavano qualche gallina. Anzi, le galline le facevano muovere sul terreno di modo che concimassero diverse parti del fondo insieme all’altro bestiame; poi nell’area più esposta al sole invece piantavano la vite. Era una visone che partiva da un approccio complesso, di attenzione alle interconnessioni, che in questo modo otteneva la maggiore efficienza dall’ambiente circostante senza comprometterlo. L’uomo collaborava con la Natura. Quando sento le tue teorie rispetto all’energia mi pare che sia di nuovo questo il concetto: noi non possiamo muoverci in maniera monoculturale e monoproduttiva. Dovremmo seguire l’esempio dei contadini che decidevano cosa fare nei loro possedimenti e questa potrebbe essere una buona pratica culturale, da sperimentare in tutti gli ambiti umani. Significa ritrovare quello che il mio amico Wendell Berry definisce “spirito di adattamento locale”.
R: Abbiamo una generazione che sta crescendo con internet. Questa rivoluzione nella comunicazione è molto differente da quella in cui siamo cresciuti io e te. Noi siamo cresciuti con la comunicazione centralizzata: radio, cinema, tv. Tutto dall’alto verso il basso. Oggi invece i giovani con in mano un Blackberry o un i-Phone possono creare la loro informazione, i loro video, audio e testi, immagazzinarli in formato digitale e condividerli. Questa rivoluzione è distribuita, è open source, è collaborativa e ha luogo in territori virtuali che sono beni comuni condivisi, dei commons. Una volta anche nell’agricoltura e in ogni altra attività economica la gente condivideva i commons e ne raccoglieva i frutti collettivamente. Poi l’egoismo ha creato quella che Gareth Hardin ha definito la “tragedia dei commons”. Anche l’agricoltura è diventata egoistica, materialista, non più basata sulla collaborazione e la condivisione. La vera natura umana invece è data dal fatto che nasciamo biologicamente interconnessi, siamo le creature più empatiche del mondo. Quello che Slow Food fa, ed è la prima volta che lo vedo nella mia vita, è prendere questa guida base dell’empatia ed estenderla alle nostre scelte alimentari, alla nostra Terra Madre, a ogni forma di vita su questo pianeta.
P: Quando mi chiedono com’è stato possibile, senza grandi risorse o strutture gerarchie, realizzare una rete come quella di Terra Madre, che oggi conta più di 6.000 comunità in 153 Pesi del mondo, io rispondo che le due colonne portanti di Terra Madre sono l’intelligenza affettiva e un’austera anarchia. L’intelligenza affettiva altro non è se non l’empatia di cui parli tu, la forza di una fraternità che non dimentichiamo essere stato il terzo valore della rivoluzione francese. Ma è stato anche quello più dimenticato. Oggi siamo pieni d’intelligenza razionale e manca l’intelligenza affettiva.
Per austera anarchia invece intendo la libertà da parte delle comunità di essere se stesse fino in fondo, di agire come meglio credono nel loro contesto territoriale, di esprimere pienamente il loro spirito di adattamento locale. Questo significa soprattutto difendere, portare in evidenza la sovranità alimentare e quella della conoscenza: ogni popolo, ogni comunità ha il diritto di scegliere cosa mangiare, cosa seminare e come comunicare; ha diritto alla propria identità. In questo momento storico, poi, mi pare che la sovranità della conoscenza sia fondamentale. I nuovi strumenti come internet e l’accesso più immediato ad audiovisivi alla portata di tutti credo possano farci uscire dalla monocultura dello scritto che non c’era nelle società contadine, perché la loro tradizione era quella della comunicazione orale. Con la monocultura dello scritto si sono estromesse dalla conoscenza persone come gli indigeni, i contadini, le donne, gli anziani e adesso anche quei giovani protagonisti della nuova rivoluzione della comunicazione, i quali condividono su internet ma sono ancora estromessi dalla cultura “ufficiale”. Io penso che noi abbiamo bisogno ci costruire velocemente i granai della memoria, perché le sapienze e i saperi di queste persone possono ancora essere raccolte con i nuovi strumenti e messe a disposizione di tutti.
R: Nella storia dell’umanità, in contemporanea con tutte le rivoluzioni della comunicazione e dell’energia è cambiata anche l’agricoltura, insieme alla nostra coscienza del tempo e dello spazio. È successo quando siamo passati dalle società di cacciatori-raccoglitori a una società di piccola agricoltura, poi nel passaggio alla grande agricoltura che si serviva dell’irrigazione e, infine, con il salto all’agricoltura centralizzata. Ovunque questo sia successo è corrisposto a una rivoluzione delle comunicazioni. In Messico, in Egitto, in Cina, in Mesopotamia con l’agricoltura stanziale si è dovuta sviluppare la scrittura. Anche all’inizio del XIX secolo, quando abbiamo avuto a che fare con la prima rivoluzione industriale e abbiamo dovuto convertire comunicazione ed energia, è cambiata l’agricoltura: abbiamo avuto la convergenza tra la stampa e l’uso del vapore e del carbone. È a quel punto che abbiamo visto per la prima volta l’agricoltura diventare veramente centralizzata. Poi le tecnologie meccaniche nella metà del XIX secolo hanno coinciso con un’ulteriore centralizzazione dovuta all'introduzione della chimica nell’agricoltura e la cosa è proseguita fino a una terza generazione, con gli OGM. Ora, come rompiamo quest’escalation?
Siamo all’inizio della terza rivoluzione industriale e all’inizio di un nuovo modello di comunicazione, con internet l’informazione sembra che stia correndo libera. Questa rivoluzione nella comunicazione sta convergendo verso un nuovo regime energetico, distribuito. Quando la comunicazione distribuita gestirà l’energia distribuita allora questa terza rivoluzione dispiegherà tutto il suo potenziale di crescita economica. Le energie rinnovabili si trovano in ogni singolo metro quadro della terra, tutti i giorni, ovunque: il vento, il sole, l’acqua, gli oceani. Milioni di persone potranno produrre la loro energia nei loro edifici e la potranno distribuire in maniera razionale con reti intelligenti. Quello che faremo nell’energia può essere replicato in agricoltura. La terza rivoluzione industriale converge con quella dell’agricoltura distribuita, un nuovo modello per servire le comunità urbane e connetterle con quelle agricole, per muoversi verso un’agricoltura ecologica.
P: Quando nel 2008 ho chiuso la terza edizione di Terra Madre ho sostenuto davanti a 8.000 contadini del mondo che la terza rivoluzione industriale sarebbe partita da loro. E lo dicevo non soltanto perché credo che questa rivoluzione prenderà ispirazione dalle campagne attraverso i saperi e l’esperienza di chi lavora con il cibo e per il cibo. Lo dicevo anche perché abbiamo bisogno di un diverso approccio per il nostro sistema alimentare. La crisi che stiamo vivendo è una crisi entropica storica. Lo sperpero di energie che provochiamo è determinato soprattutto dal sistema alimentare, da una quantità di spreco che non ha pari nella storia dell’umanità. Noi produciamo cibo per 12 miliardi di viventi mentre siamo 7 miliardi. Un miliardo soffre la fame e più di un miliardo invece ha problemi legati alla sovralimentazione, diabete e obesità. Le quantità di spreco quotidiano sono impressionanti: 4.000 tonnellate di cibo edibile ogni giorno in Italia, 22.000 negli USA. Al di là di nuove visioni ci vuole quindi anche un profondo cambiamento di paradigma individuale, supportato da un grande lavoro educativo e formativo. Scambiare il prezzo del cibo con il suo valore ci ha distrutto l’anima. Se il cibo è una merce non importa se lo spreco. In una società consumistica tutto si butta e tutto si può sostituire, anzi, si deve sostituire. Ma il cibo non funziona così. Dal punto di vista educativo il lavoro è quindi enorme, perché non significa solo una politica di contrapposizione nei confronti di chi governa il sistema, ma ci vuole una politica di cambiamento individuale. Non si esce dalla crisi entropica se non volando molto alto e cambiando profondamente i paradigmi a partire dalle nostre singole, piccole vite.
R: Ci dicono che ci sono troppe persone nel mondo e che non c’è abbastanza terra per tutti, ma quello che non capiscono è che un terzo di tutto il cibo prodotto sul pianeta è mangime per bovini che poi noi dovremo mangiare. Anche la FAO ha detto che l’industria della carne è la seconda causa principale del cambiamento climatico, ma allo stesso tempo sostiene che la produzione di cibo deve raddoppiare nei prossimi trent’anni per poter nutrire il pianeta. In questo modo avremo il 67% della terra coltivata per produrre mangimi animali! Allora ciò che possiamo fare è cominciare a cambiare la nostra dieta, dobbiamo ricordarci che non siamo carnivori, i gatti e i cani lo sono, noi no. E non siamo nemmeno erbivori: siamo onnivori. Siamo “progettati” per mangiare vegetali e integrare questa dieta con piccole quantità di carne. Per il 97% della nostra storia siamo stati raccoglitori-cacciatori, non cacciatori-raccoglitori. Quale dieta possiamo praticare oggi? Quella mediterranea per esempio, ma ci sono anche la dieta asiatica e quella africana che si basano sulle stesse proporzioni tra vegetali e animali. Quello che hai detto sul valore del cibo è così cruciale. Il cibo esprime l’identità delle persone. Nel mio Paese con il fast food abbiamo perso il nostro senso d’identità, e il nostro cibo ha smesso di essere un’estensione del nostro essere. Quel cibo non è umano in nessun senso della parola.
P: Sono arrivati a brevettare la vita. Bisogna essere irremovibili: non si può brevettare la vita. Allo stesso tempo sono convinto che sia necessario implementare un dialogo tra regni. Esistono due regni della conoscenza: la scienza ufficiale da un lato, quella che negli ultimi tre secoli è diventata molto autorevole, e i saperi tradizionali dall’altro, che in maniera empirica hanno implementato economie della sussistenza. Nei confronti di queste economie però c’è stato un atteggiamento di superiorità, sono state considerate miserevoli, fino a cercare di cancellarle. Ricordiamoci però che queste forme di economia, di sussistenza, hanno dato da mangiare per secoli a milioni di persone. Allora penso che sia giunto il momento per un dialogo e una dialettica tra il regno della scienza e il regno dei saperi tradizionali. Però la scienza non può porsi su un livello diverso, superiore, perché in questo modo non può esserci dialogo. Si deve avere la stessa dignità, si deve stare sullo stesso piano, deve esserci parità. Soltanto in questo modo ci può essere una dialettica, magari anche lo scontro, ma è così che si instaura un processo di verità, un qualcosa di veramente costruttivo.
R: Inizialmente nel mio paese le università e le scuole di agricoltura si sono strutturate sulla sapienza dei contadini, hanno preso la loro conoscenza e sono diventate capaci di disseminarla. Tutto questo ora è cambiato, adesso queste scuole sono controllate dalla grandi compagnie che maneggiano la scienza della vita. Se crediamo nell’agricoltura ecologica dobbiamo dire no a qualsiasi forma di brevetto sulla vita e sui geni. La vita non appartiene a una tribù locale, non appartiene a una nazione o a una compagnia come la Monsanto. Appartiene all’evoluzione di questo pianeta. Questa è la vera sfida per le generazioni future: vietare i brevetti e rendere libera e condivisa l’informazione sui pool genetici, per condividere la nostra responsabilità, perché noi siamo gli steward della vita sulla terra.
P: Ai lettori di La Repubblica interesserà sapere ancora due cose. Negli Stati Uniti d’America avverto un grande rinascimento su queste tematiche, proprio nella patria del fast food. L’attenzione per il cibo e per la nuova agricoltura, per i farmers’ markets ha dato vita a un movimento molto forte, che sta emergendo in maniera dirompente. Lo avverto anche per il fatto che laggiù Slow Food sta avendo un successo sorprendente in termini di adesioni. Tu come leggi queste nuove tendenze, me le confermi?
R: Ci sono molti valori che stanno aggregandosi, attraverso il lavoro di diversi movimenti. Per esempio abbiamo una generazione di giovani consumatori che vuole solo cibo biologico. Ciò che li muove è il desiderio di salute. È uscito uno studio il mese scorso che collega i pesticidi con i disturbi del comportamento e i deficit dell’attenzione. I genitori non vogliono che i figli abbiano questi disturbi, quindi evitano i cibi da agricoltura industriale. Poi c’è il movimento per il benessere animale che dice: quello che è cattivo per le piante e per gli animali è cattivo anche per l’uomo. Ciò che facciamo alle piante e agli animali nei processi di agricoltura industriale è crudele e ci tornerà indietro. Il terzo movimento invece è quello ambientalista, che ha iniziato a vedere le terribili conseguenze dell’agricoltura sull’acqua e sui terreni: gli inquinamenti da pesticidi e fertilizzanti che distruggono interi ecosistemi. Questi tre movimenti stanno emergendo insieme, sono molto potenti e sono tutti basati sulla coscienza della biosfera. È quello che mi dà speranza. In tutte le scuole del mondo bisognerebbe insegnare che tutto quello che facciamo impatta drammaticamente la vita di qualche altra creatura. Non siamo isolati, autonomi, incentrati sul nostro interesse, predatori e individualisti, ma siamo creature sociali connesse con le altre creature e con tutta la biosfera che sorregge la nostra vita. Cambiare le nostre abitudini alimentari in un modo distribuito e olistico, per sviluppare il nostro cibo in armonia con il resto della biosfera è una rivoluzione in termini di coscienza, che avrà effetti su tutti gli altri aspetti della nostra vita.
P: Invece che ne pensi del disastro provocato dalla piattaforma della BP nel Golfo del Messico? Lo trovo terrificante.
R: Catastrofico. Alla mia età cerco di non arrabbiarmi più, ma quando ho compreso la grande perdita che stiamo subendo, che questo avrà ripercussioni per generazioni e generazioni sulla vita delle persone, non ce l’ho fatta. Dovrebbe essere un campanello d’allarme per tutti, negli Stai Uniti ma anche qui in Europa e nelle Paesi in via di sviluppo. È come con la guerra in Vietnam, che ha risvegliato le coscienze e ha fatto nascere il movimento pacifista. Ho fiducia nei giovani: penso che stia avvenendo un grande cambiamento politico nel mondo, la vecchia politica è sempre stata divisa tra conservatori e non, tra destra e sinistra, ma questa è la nuova generazione che non si cura delle ideologie e degli schieramenti, è una generazione che cresce con internet e collabora nei suoi spazi sociali come Youtube e Facebook. Stanno portando avanti una visione diversa, collaborativa, che condivide le tecnologie e le mette a disposizione, che lavora insieme. Questa è la nuova politica.
P: Mi piace molto il riferimento che hai fatto al Vietnam, perché credo sia questo il nuovo pacifismo, ciò che deve fermare la nostra guerra alla Natura.
R:
Stop war on nature! Hai ragione. Abbiamo lottato contro la natura per troppo tempo. È ora di smetterla e di comportarsi da veri esseri umani. Abbiamo mandato nello spazio messaggi, onde radio e quant’altro alla ricerca di altre forme di vita, sperando che qualcuno ci rispondesse, ma nessuno ci ha risposto. Cerchiamo la vita intelligente nell’universo mentre non ci rendiamo conto che è proprio davanti ai nostri occhi. È la vita delle piante con la loro bellezza, la vita degli animali, dei mammiferi che provano sentimenti: siamo circondati dalla vita ovunque,
dal mistero della vita.
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