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venerdì 22 giugno 2012

Euclid: esplora il lato nascosto dell’Universo



 La missione Euclid dell’ESA per esplorare il lato nascosto dell’Universo – energia oscura e materia oscura – ha raggiunto un importante traguardo che oggi la vede passare dalla fase di studio e progettazione alla fase di realizzazione. – L’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha approvato oggi ufficialmente, dopo cinque anni di intenso lavoro e selezioni competitive, la realizzazione del satellite Euclid, che sarà condotta attraverso la più grande collaborazione di astronomi  nel mondo. Euclid studierà l’Universo Oscuro con grande precisione, tracciando la distribuzione e l’evoluzione delle enigmatiche materia oscura ed energia oscura in tutto l’Universo. Utilizzerà un telescopio di 1,2 m di diametro e due strumenti per mappare la distribuzione tridimensionale di circa due miliardi di galassie e della materia oscura che le circonda, oltre un terzo dell’intero cielo. L’Italia è coinvolta nella missione attraverso la realizzazione di sottosistemi dei due strumenti di bordo, la responsabilità del Segmento di Terra e ruoli importanti nella gestione degli aspetti sia tecnici sia scientifici della missione. Il nostro Paese è, insieme alla Francia, uno dei due partner maggiori e la sua partecipazione è finanziata e
supportata principalmente dall’Agenzia Spaziale Italiana. In Euclid sono coinvolti oltre duecento scienziati italiani, appartenenti all’INAF (principalmente gli Istituti IAPS, IASF di Bologna e Milano, e gli Osservatori Astronomici di  Bologna, Brera, Padova, Roma, Torino e Trieste) e a numerose Università (principalmente UniBO, Roma La Sapienza, Roma Tor Vergata, UniTS, SISSA).  Quella appena approvata è la fase finale della selezione di Euclid come parte del programma “Cosmic Vision” dell’ESA, e mette in moto un esercito di fisici e ingegneri per  costruire e far volare questa nuova missione entro la fine di questo decennio. Selezionata nell’ottobre 2011 insieme a Solar Orbiter come una delle prime due missioni di classe media del programma Cosmic Vision 2015-2025, Euclid ha ricevuto oggi l’approvazione finale necessaria dall’ESA Science Programme Committee (SPC) per far passare il progetto alla fase di costruzione, per arrivare al lancio nel 2020.Lo SPC inoltre ha formalizzato oggi il Multilateral Agreement tra ESA e tredici agenzie spaziali europee, per la leadership degli strumenti di bordo di Euclid, la costruzione dei loro sottosistemi e la realizzazione del software per la gestione e l’analisi dei dati scientifici. Ha inoltre approvato il Memorandum of Understanding con la NASA che definisce la partecipazione degli Stati Uniti alla missione attraverso la fornitura dei rivelatori per la radiazione infrarossa. “La partecipazione al programma “Cosmic Vision 2015-2025″ di ESA è l’impegno maggiore dell’Agenzia Spaziale Italiana – Barbara Negri, responsabile dell’Esplorazione e Osservazione dell’Universo dell’ASI – per i prossimi anni nel settore dell’esplorazione e osservazione dell’Universo.
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 Tutte le missioni finora selezionate (Solar Orbiter, Euclid e Juice) prevedono ruoli importanti per l’Italia, che la comunità scientifica e industriale nazionale ha conquistato grazie all’esperienza acquisita in precedenti programmi spaziali. In particolare per la missione Euclid ASI supporterà le attività scientifiche e tecniche svolte da INAF e dall’Università di Bologna e, in parallelo, selezionerà e finanzierà l’industria italiana che dovrà realizzare i delicati sottosistemi dei due strumenti di bordo di responsabilità italiana. ASI, inoltre, sottoscriverà con ESA e le altre agenzie nazionali l’Euclid Multilateral Agreement, che assegna ruoli e responsabilità nella realizzazione della missione, e avrà il compito di monitorare, attraverso la partecipazione allo Steering Committee, l’andamento tecnico, programmatico e finanziario del programma.”   “E’ un successo corale di un grande team internazionale in cui l’Italia ha sempre avuto un ruolo chiave fin dall’inizio (2007). Euclid diventa ora la punta di diamante per gli studi dell’Universo nei prossimi 20 anni, e rappresenta un investimento prezioso per i giovani scienziati italiani” concorda Andrea Cimatti, dell’Università di Bologna, rappresentante italiano nel Board del Consorzio Euclid e membro dello Euclid Science Team (EST). “La missione non solo pone l’Europa e l’Italia ai primi posti nelle ricerche cosmologiche ma i suoi dati faranno progredire  molte altre problematiche astrofisiche di forte interesse per una vasta comunità ” afferma Roberto Scaramella, dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Roma, Mission Survey Scientist e membro del Board del Consorzio e di EST. “La dimensione della squadra”, circa 1000 tra scienziati e tecnici, “mostra l’immenso interesse in Euclid da parte del mondo scientifico in tutta
Europa”, commenta Luigi Guzzo, dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Brera e uno dei coordinatori scientifici della missione Euclid. 

 L’Euclid Consortium fornirà due strumenti all’ESA, uno strumento per immagini nel visibile (VIS) e uno strumento per fotometria e spettroscopia nel vicino infrarosso (NISP). Il grande campo di vista di questi strumenti permetterà di raccogliere  un’enorme quantità di dati di qualità eccezionale su una grande porzione di cielo.  “Il contributo dell’Italia ai due strumenti, con la responsabilità sull’elettronica e il software di bordo, sarà fondamentale per il successo della missione” confermano Luca Valenziano, dell’INAF-Istituto di Astrofisica Spaziale e Fisica cosmica di Bologna, responsabile del contributo italiano a NISP e Anna Di Giorgio, dell’INAF-Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziale, responsabile del contributo al VIS. Saranno richieste sofisticate risorse informatiche dedicate all’analisi dei dati di Euclid, per cercare le tracce dell’energia oscura, che, paradossalmente, sono molto piccole, nonostante essa raggiunga il 75% della densità di energia dell’Universo. Il Segmento di Terra o Science Ground Segment (SGS), che coordina l’analisi di tutti i dati Euclid, comprende centinaia di scienziati sparsi in tutta Europa e richiede uno sforzo enorme per organizzare e lavorare in sinergia.  Fabio Pasian dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Trieste, leader dello SGS, ne è convinto: “l’elaborazione dei dati per la missione Euclid sarà particolarmente impegnativa a causa della grande precisione richiesta per ottenere i risultati attesi, ma di immenso ritorno per la nostra comunità scientifica”. 

 Fonte: INAF Istituto Nazionale di Astrofisica



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mercoledì 20 giugno 2012

la plastica pulita

 

 

 Scoperta italiana: la plastica pulita

Un computer collegato a internet. E un'idea. Nasce così la scoperta fatta da Marco Astori e Guy Cicognani. E quelle degli altri inventori e innovatori che provano a "cambiare la vita in meglio" 


"LA COSA più buffa di questa storia è che io non sono uno scienziato e nemmeno un laureato in chimica. Sono soltanto un grafico pubblicitario che un giorno si è detto che doveva esserci un altro modo per fare la plastica. Un modo che non inquinasse il pianeta per migliaia di anni. Allora sono andato su Internet a cercare fino a quando quel modo l'ho trovato". Questa è la storia di una rivoluzione fatta in casa, scoperta per caso e destinata forse a cambiare le cose.

Gli oggetti della nostra vita. L'artefice si chiama Marco Astorri, ha 43 anni, tre figli, una pettinatura che lo fa assomigliare al protagonista muto di The Artist e un'azienda che sta facendo discutere il mondo: la BioOn sta a Minerbio, a 40 minuti da Bologna. Da qualche mese ogni settimana c'è una processione infinita verso questo misterioso laboratorio in mezzo ai campi: bussano i capi delle grandi multinazionali della chimica, ma anche i produttori di telefonini, personal computer e televisori, componenti per le automobili. Insomma tutti quelli che fanno prodotti usando la vecchia plastica.

Vengono, ascoltano, guardano le ampolle piene di misture dolciastre, i fermentatori di metallo riflettente. Poi spalancano gli occhi e la domanda che si fanno è: possibile che questo scienziato-fai-da-te, questo hacker con la scatola del piccolo chimico sotto il braccio abbia trovato la formula magica per farci vivere davvero "senza petrolio" (il petrolio, com'è noto, è la base di tutte le plastiche e l'origine dei problemi a smaltirle dato il suo tasso terribilmente inquinante, vedi la diossina)?

Ebbene sì, è possibile, perché è esattamente quello che sta accadendo. La storia inizia nel 2006. E inizia naturalmente con un pezzetto di plastica. Anzi con migliaia di pezzetti di plastica. Sono gli skipass che gli sciatori lasciano distrattamente in mezzo alle neve a fine giornata. Solo che poi in primavera la neve si scioglie, gli skipass no: quei pezzetti di plastica restano a inquinare l'ambiente per una vita, anzi per migliaia di anni. Marco Astorri e il suo socio francese Guy Cicognani di quegli skipass sono in un certo senso colpevoli, visto che li producono. Per la precisione, realizzano le micro-antennine che aprono i tornelli (Rfid).

Ed è facendo questo lavoro che iniziano a chiedersi se non ci sia un modo per fare una plastica totalmente biodegradabile. Una plastica che si sciolga in acqua. Come la neve, appunto. Astorri e Cicognani non sono i primi a pensarlo ovviamente. Proprio in Italia Catia Bastioli, dal 1990 e negli stabilimenti della Novamont a Terni, ha iniziato a produrre la MaterBi, plastica a base di amido di mais. Ha avuto un notevole successo, al punto che alle prossime Olimpiadi di Londra i piatti, i bicchieri e le posate, in tutto alcune decine di milioni di pezzi, saranno di bioplastica italiana.

Un grande orgoglio nazionale di cui andare fieri. Il mais però è un alimento: usarlo per fare la plastica vuol dire farne salire il prezzo e si è visto con i biocarburanti di prima generazione come questo possa essere problematico. Inoltre, per quanto riguarda la biodegradabilità, la provincia di Bolzano ha fatto presente che i sacchetti che dal 1° gennaio la legge ci impone di usare al supermercato creano inciampi agli impianti di compostaggio dei rifiuti. Insomma, forse si può fare meglio.

Ma torniamo al 2006. Ricorda Astorri: "Abbiamo chiuso con gli skipass. Ci siamo comprati un computer, un iMac, l'abbiamo collegato alla Rete e abbiamo iniziato a cercare qualcosa di nuovo". La caccia al tesoro dura poco e finisce in un'università in mezzo all'Oceano Pacifico dove un gruppo di ricercatori sta sperimentando un modo per produrre la plastica con gli scarti della lavorazione delle zucchero: il melasso, sostanza che oggi ha un costo per essere smaltito ma può diventare invece la materia prima per una plastica davvero bio.

Astorri e Cicognani intuiscono che quella pista è quella buona, prendono un aereo, investono la metà dei loro risparmi per comprare quel brevetto (250mila dollari), ne aggiungono una serie di altri sparsi nel mondo e in un anno sono pronti a realizzare la molecola descritta dal biologo francese Maurice Lemoigne nel lontanissimo 1926: il PHA.

Di che si tratta? A sentire la spiegazione del capo del laboratorio, Simone Begotti, un quarantenne che per anni si è occupato di fermentazione in aziende biofarmaceutiche, la ricetta è un segreto di Stato ma il procedimento non è complesso: "Si tratta di affamare e poi far ingrassare dei batteri. In poche ore quel grasso diventa la polvere con cui facciamo la plastica ". Perché ci sono ci sono voluti più di 80 anni per ripartire da lì? "Perché in quei tempi ci fu il boom del petrolio: fare plastica in quel modo era facile ed economico, i costi per l'ambiente non venivano tenuti in considerazione ", sostiene Astorri.

Nel 2007 il nuovo polimero viene battezzato Minerv, in omaggio al posto dove sorge il laboratorio ma anche a Minerva, dea romana della guerra e della saggezza "visto che sarebbe saggio fare questa guerra in nome dell'ambiente". Un anno dopo arriva la certificazione internazionale: "Il Minerv è biodegradabile in terra, acqua dolce e acqua di mare", attestano a Bruxelles. Astorri lo spiega così: "In 10 giorni i granuli di MinervPHA si dissolvono in acqua senza alcun residuo ". Miracolo. Si decide così di fare una startup anche qui cambiando le regole: niente soldi pubblici e soprattutto niente soldi dalla banche: "Abbiamo fatto un patto con i contadini", racconta Astorri. L'accordo è con la cooperativa agricola emiliana CoProB che produce il 50 per cento dello zucchero italiano. Oltre a tantissimo melasso. Saranno loro, i contadini emiliani, i titolari del primo impianto BioOn che aprirà a fine anno: "È la fabbrica a chilometro zero. Sorge dove stanno le materie prime", spiega Astorri che con l'aiuto del colosso degli impianti industriali Techint, punta a replicare il meccanismo in tutto il mondo: la fabbrica in licenza. Un paio di impianti, a forma di batterio, disegno dell'architetto bolognese Enrico Iascone, apriranno in Europa, uno negli Stati Uniti.

La svolta è arrivata un anno fa quando in laboratorio il mago Begotti è riuscito per la prima volta a realizzare un PHA con proprietà molto simile al policarbonato. Non la classica plastica dei sacchetti della spesa, quindi, ma la plastica dura e malleabile di cui sono fatti tanti oggetti della nostra vita quotidiana. Il primo a crederci è stato il presidente di Floss che ha voluto replicare una celebre lampada del design italiano firmata Philippe Starck, Miss Sissi.

Presentazione solenne lo scorso 18 aprile al Salone del Mobile, poi un'escalation continua: secondo Astorri tra un anno il MinervPHA sarà negli occhiali da sole italiani, nei computer californiani, nei televisori coreani e persino nelle confezioni di merendine per bambini. "Tutti mi dicono che sono seduto su una montagna d'oro ma non è così che mi sento. Mi sento su una scala di cui non si vede la fine".

L'inizio in compenso si vede benissimo. Era il 1954 e a pochi chilometri da Minerbio, Ferrara, negli stabilimenti della Montecatini, un grande chimico italiano scopriva la regina delle plastiche, il polipropilene isotattico, noto come il Moplen nelle reclame dell'epoca con Gino Bramieri. Il 12 dicembre 1963 Giulio Natta e il chimico tedesco Karl Ziegler ricevevano il premio Nobel. Nella motivazione si legge: "Le conseguenza scientifiche e tecniche della scoperta sono immense e ancora non possono essere valutate pienamente". Sarebbe la seconda volta che un italiano reinventa la plastica.

di RICCARDO LUNA

LEGGI ANCHE: http://cipiri6.blogspot.it/2012/03/isola-di-plastica.html
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martedì 12 giugno 2012

Margherita Hack festeggia 90 anni



Margherita Hack festeggia 90 anni

La più famosa astrofisica toscana parteciperà ad una cerimonia in prefettura per il suo compleanno

La nota astrofisica Margherita Hack festeggia il suo novantesimo compleanno. Nata il 12 giugno del 1922 a Firenze, l'“amica delle stelle” parteciperà per l'occasione ad una cerimonia organizzata in prefettura.

Da anni ormai la scienziata vive a Trieste, dove ha insegnato astronomia all'Università a partire dal 1964. Ha attenuto addirittura l'incarico di direttore del piccolo Osservatorio astronomico di Trieste, che grazie alla sua passione, è divenuto un centro importante a livello internazionale.

Margherita Hack racconta come il suo amore per le scienze sia nato per caso: i suoi genitori avrebbero voluto che si iscrivesse alla facoltà di Lettere, ma la sua curiosità per il mondo della fisica la spinse a scegliere tutt'altra strada.

"La mia scelta all'Università, mentre i miei volevano mi iscrivessi a Lettere, in realtà nacque quasi per caso, durante il liceo dove cominciai ad amare la fisica, forse anche per merito del professore, nonostante fosse un fascista e io rischiai di farmi cacciare da tutte le scuole del Regno per antifascismo".

Autrice e fondatrice di numerose riviste e saggi, Hack ha sempre dimostrato il suo interesse anche in ambito politico. Libertà di ricerca, laicità dello Stato e apertura al nucleare: sono questi alcuni dei princìpi su cui si basa il pensiero della scienziata.

Al di là dei momenti entusiasmanti in cui si fa una scoperta, che vengono spesso considerati come la parte rilevante della ricerca, il lavoro quotidiano di uno scienziato è piuttosto duro e richiede molta pazienza, per via della necessità di ripetere tante volte le osservazioni e gli esperimenti. Ma ciò non lo rende un lavoro meccanico né noioso, anzi, come ho potuto constatare nella mia lunga carriera, è decisamente appassionante... Del resto, il lavoro dello scienziato diventa veramente interessante quando s'incontra qualcosa di inaspettato.


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venerdì 8 giugno 2012

la zanzara e la pioggia

Come fa la zanzara a sopravvivere alla pioggia


In caso di impatto con una goccia una zanzara è in pericolo di essere schiacciata al suolo soltanto se vola troppo basso. Altrimenti, grazie all'esoscheletro elastico e al peso minimo, la zanzara subisce solo un'accelerazione che, sebbene estremamente elevata, è in grado di sopportare. Lo studio è stato effettuato nel quadro di ricerche per la messa a punto di micro-veicoli aerei (MAV) che potrebbero avere numerose applicazioni, quali l’approntamento di “sciami” per sistemi di di sorveglianza e operazioni di ricerca e salvataggio

VIDEO: La goccia e la zanzara
In qualche giornata estiva di pioggia ce lo siamo chiesto tutti: come fanno moscerini e zanzare a cavarsela mentre volano sotto una pioggia battente? In fondo, se facciamo le proporzioni fra i rapporti di massa, è come se una persona venisse investita da un autobus. Una risposta scientifica, sperimentalmente controllata, arriva ora da un gruppo di ricercatori del Georgia Institute of Technology e della Harvard University che firmano un articolo pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences”.

Non è improbabile che qualcuno candidi lo studio ai prossimi premi IgNobel, tuttavia va detto che è stato condotto nel quadro di ricerche per la messa a punto di micro-veicoli aerei (MAV) che potrebbero avere numerose applicazioni, quali l’approntamento di “sciami” per sistemi di di sorveglianza e operazioni di ricerca e salvataggio.

I ricercatori hanno eseguito una serie di esperimenti riproducendo una situazione di pioggia in un contenitore al cui interno c’erano zanzare impossibilitate a posarsi sulle pareti, e riprendendo il tutto con una telecamera ad alta velocità. L’analisi dei risultati ha confermato che il segreto della sopravvivenza di questi insetti risiede nel loro esoscheletro resistente e molto elastico e nella loro leggerezza, in virtù della quale la forza risultante impressa su di essi è comunque bassa, e con effetti differenti a seconda del punto in cui sono colpiti. Se la goccia colpisce l’insetto proprio nel suo baricentro, vi può finire immerso, ma riesce a sfuggire e a riprendere il volo grazie alla peluria idrorepellente che ne ricopre il corpo.



La collisione ha però un altro effetto: sottopone l’insetto a un'incredibile accelerazione variabile, sempre a seconda del punto d’impatto, fra 100 e 300 g, superiore a quella a cui si sottopone volontariamente la pulce quando spicca il suo salto (135 g) e probabilmente, osservano gli autori, prossima al limite sopportabile da qualsiasi essere vivente.

Le zanzare possono però rischiare la vita quando volano molto basse, vicino al suolo. Se infatti non ha una distanza sufficiente a recuperare l'impatto, l'insetto può colpire la terra sostanzialmente con la stessa velocità di caduta della goccia o finire immerso in una pozza d'acqua da cui non può sfuggire.

Dagli esperimenti i ricercatori hanno rilevato che in questo caso le zanzare non morivano né per l’impatto con la goccia, né per quello con la superficie del liquido, ma perché annegavano in seguito all’adesione dell’acqua alla superficie del loro corpo. Nonostante la peluria idrorepellente, nel momento in cui si “spiaccica” sull’acqua le forze in gioco nell’urto la rendono inefficace.

I ricercatori non sono invece riusciti, almeno per ora, a stabilire con chiarezza se questi insetti, date le loro notevoli capacità di volo laterale e di inversione di rotta, possono schivare le gocce di pioggia. Negli esperimenti le zanzare non si sono dimostrate in grado di farlo, la loro velocità massima di volo era di circa un metro al secondo, molto inferiore alla velocità media delle gocce (6-9 metri al secondo).

“Supponiamo – scrivono gli autori - che una zanzara riesca a vedere gli oggetti in arrivo entro un raggio di dieci centimetri. Data la velocità delle gocce di pioggia, avrebbe dieci millisecondi per uscire dalla traiettoria di una goccia in arrivo. Se la zanzara potesse raggiungere metà della sua velocità massima, potrebbe percorrere una distanza di 0,5 centimetri in dieci millisecondi, che non è sufficiente per evitare la collisione nella maggior parte dei casi. Tuttavia, può esserci una differenza tra una collisione diretta e un colpo di striscio. In questo studio, peraltro abbiamo studiato solo l'impatto di caduta dall'alto.”


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venerdì 1 giugno 2012

scoperta l'età dell'alone delle stelle



  la nascita del gruppo di stelle che formano l’alone

L’età di una stella è fondamentale per risalire alla nascita della nostra galassia. Jason Kalirai dello Space Telescope Science Institute di Baltimora, alla guida di un gruppo di ricercatori, ha fatto una straordinaria scoperta, pubblicata sulla rivista “Nature”.

Fino a ora, i dati disponibili sulla formazione della Via Lattea, distinta in nucleo, disco stellare e alone, erano molto approssimativi. Il metodo di ricerca messo in campo da Kalirai, ha permesso, invece, di ottenere una maggiore precisione nell’individuare la nascita del gruppo di stelle che formano l’alone.

Il ricercatore è partito dallo studio delle nane bianche, stelle in origine di massa simile o appena superiore a quella del Sole, arrivate allo stadio finale della loro evoluzione. Kalirai ha analizzato i dati raccolti dal telescopio spaziale Hubble, riuscendo in questo modo a ricavare la massa di duemila nane bianche presenti all’interno dell’ammasso globulare più vicino a noi, Messier 4, nella costellazione dello Scorpione.

Attraverso lo studio dei vari dati a disposizione, Kalirai ha sviluppato un modello che mette in relazione le masse della nane bianche con quelle dei soli che le hanno generate, dunque con l’età della popolazione stellare.
Con l’impiego di un innovativo cronometro stellare, lo scienziato ha applicato lo stesso metodo di relazione alle quattro nane bianche presenti nell’alone della Via Lattea. In questo modo, è stato possibile calcolare l’età delle stelle: gli ammassi globulari più vecchi hanno circa 13,5 miliardi di anni, mentre la parte più esterna della nostra galassia è più giovane: “appena” 11,4 miliardi di anni.

Misurazioni che permetteranno di avere informazioni sull’evoluzione dell’intera galassia di cui fa parte il nostro Sistema Solare. La ricerca, se sarà confermata, consoliderà ulteriormente l’opinione che l’alone della nostra galassia è formato da una struttura a strati, che si è composta nel corso di miliardi di anni.

“Ho studiato stelle alla fine della loro vita per determinare le loro masse e quindi collegare quelle masse alla vita dei loro progenitori” ha spiegato lo scienziato. “Data la natura di queste stelle morte, le loro masse sono più facili da misurare rispetto a stelle simili al Sole”.


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