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martedì 14 settembre 2010

Konrad Lorenz, uno scienziato antimoderno




I pregiudizi scientisti e progressisti di cui è impregnata la nostra cultura ci portano spesso a vedere in ogni visione alternativa rispetto al mondo moderno il portato di mentalità antiscientifiche ed arcaiche, sogno di visionari metafisici che ignorano i fondamenti e le regole più elementari del sapere positivo. Sembra quasi che la critica al mondo moderno sia prerogativa di culture inevitabilmente “altre” rispetto a quel sapere che di tale mondo si reputa a fondamento, e che la scienza sia necessariamente al servizio della modernità e della società a cui essa ha dato origine. La figura e l’opera di Konrad Lorenz smentiscono clamorosamente tali pregiudizi: universalmente considerato uno dei maggiori “scienziati” del XX secolo, padre dell’etologia moderna e Nobel per la fisiologia e la medicina nel 1973, è stato al tempo stesso uno dei più lucidi e feroci critici della modernità e dei suoi miti, anticipatore di molte di quelle tematiche oggi fatte proprie dai movimenti e dalle culture ambientaliste e no-global.A rileggere la sua opera, sviluppatasi lungo l’arco di un quarantennio, dal dopoguerra agli anni Ottanta del secolo appena trascorso, ci ritroviamo al cospetto di un vero e proprio “profeta” dei mali che affliggono il nostro mondo e dei problemi che la nostra generazione è chiamata ad affrontare. E tutto ciò da una prospettiva che pur rimanendo fedele ai fondamenti positivisti ed evoluzionisti della sua visione di fondo, ha saputo essere al tempo stesso radicalmente anticonformista ed “inattuale” rispetto ai valori ed alle tesi di cui quella visione si è fatta spesso portatrice. Ci sembra essere proprio questa, alla fine, la cifra del pensiero di Konrad Lorenz, uno scienziato “antimoderno”. A diciotto anni dalla sua morte - avvenuta nel 1989 - proprio oggi che molte delle sue analisi si sono rivelate profetiche e che l’eco delle polemiche, anche accese, che hanno accompagnato la sua vicenda culturale ed umana si va ormai spegnendo, è possibile, e al tempo stesso doveroso, guardare alla sua opera con maggiore interesse, curiosità ed obiettività, attribuendole la valenza e la riconoscenza che meritano.


Konrad Lorenz nasce a Vienna nel 1903. Studia medicina a New York e a Vienna, laureandosi nel 1928. Nel 1933 consegue anche la laurea in zoologia, assecondando i suoi veri interessi che si stavano orientando sempre più verso il mondo animale e l’ornitologia in particolare. Nel 1937 diventa docente di psicologia animale e anatomia comparata presso l’Università di Vienna e, a partire dal 1940, di psicologia all’Università di Königsberg. Scoppiata la guerra, combatte nell’esercito tedesco. Durante il conflitto viene fatto prigioniero dai russi; così dal 1944 al 1948 è trattenuto in un campo di detenzione sovietico fino alla fine delle ostilità. Nel 1949 viene pubblicato L’anello di Re Salomone, destinato a rimanere la sua opera più celebre, dove Lorenz rivela quelle doti di abile ed affascinante divulgatore che resero i suoi testi famosi nel mondo, avvicinando alle tematiche etologiche e naturalistiche un vasto pubblico di non addetti ai lavori; doti confermate nel successivo E l’uomo incontrò il cane, del 1950. Nel 1961 diviene Direttore dell’Istituto Max Plank per la fisiologia del comportamento di Starnberg, in Baviera, carica che manterrà fino al 1973. E’ proprio a partire da tali anni che, accanto a testi a contenuto prettamente scientifico, Lorenz inizia ad estendere i suoi interessi alla sfera sociale e culturale, per arrivare ad affrontare le tematiche dell’attualità del suo tempo, lette all’interno di un’ottica che faceva tesoro di quanto via via egli stava maturando e scoprendo in ambito naturalistico. Dall’etologia animale si passa così all’etologia umana. Tali nuovi interessi iniziano per la verità a fare capolino già nelle opere a carattere scientifico, rivelando la vastità degli orizzonti e delle prospettive che fin dagli inizi hanno accompagnato la sua ricerca.


L’opera Il cosiddetto male, del 1963, che affronta il tema dell’aggressività intraspecifica, è un tipico esempio di tale prospettiva. In questo scritto Lorenz sostiene che l’aggressività, al pari di diversi altri istinti quali la sessualità o la territorialità, sia un comportamento innato, come tale insopprimibile e spontaneo, impossibile da far derivare dai soli stimoli ambientali. Essendo un istinto innato, l’aggressività è in quanto tale “al di là del bene e del male” (di qui anche il carattere ironico e polemico del titolo del libro; modificato, in alcune delle edizioni successive, nel più neutro L’aggressività), componente strutturale di ogni essere vivente e svolgente un ruolo fondamentale nell’ambito dei processi evolutivi e quindi della sopravvivenza della specie. Basti pensare al ruolo che la conflittualità intraspecifica gioca nell’ambito della delimitazione del territorio, della scelta del partner nella riproduzione, dell’instaurazione delle gerarchie all’interno del gruppo. Lorenz sostiene altresì che gli stessi istinti “buoni”, ovvero quelli gregari e amorosi, derivino evoluzionisticamente dalla stessa aggressività, essendo modificazioni selettive di questa indirizzati a finalità differenti, tanto che sopprimere l’aggressività significherebbe sopprimere la vita stessa. Il libro suscitò polemiche violentissime, dato che Lorenz non limitò le sue riflessioni all’ambito animale, ma le estese anche a quello umano e storico-sociale. Le accuse si sprecarono e la polemica, dal terreno scientifico su cui Lorenz intendeva mantenerla, scivolò, com’era prevedibile, su quello politico ed ideologico: gli diedero del razzista e del guerrafondaio. In realtà il proposito del testo era quello di criticare le correnti comportamentiste e behavioriste, allora molto in voga, secondo cui tutti i comportamenti derivano in ultima analisi dalle influenze e dagli stimoli ambientali, modificati i quali sarebbe possibile modificare gli stessi comportamenti, aggressività inclusa. Per i comportamentisti, quindi, non vi sarebbe nulla di innato. Lorenz, al contrario, considera l’istinto un dato originario, geneticamente condizionato: in quanto tale, esso vive di vita autonoma, non vincolandosi necessariamente all’azione di quelle influenze ambientali aventi la funzione di stimoli scatenanti. Anzi, secondo Lorenz più un istinto non trova occasione di scatenamento, più aumenta la possibilità che esso si scarichi prima o poi in maniera ancor più dirompente, anche in assenza degli stimoli corrispondenti. Se così non fosse, per Lorenz sarebbero difficilmente spiegabili i fenomeni di aggressività cosiddetta “gratuita”, così diffusi sia nel mondo animale che tra gli uomini. Lungi dal costituire un’apologia della violenza e della guerra, l’opera di Lorenz intendeva innanzi tutto mettere in guardia da ogni posizione utopica circa la convivenza umana e la risoluzione dei conflitti, risoluzione che, per essere realistica e antropologicamente fondata, non poteva prescindere da dati e analisi che egli riteneva incontrovertibili. Al contrario, proprio la mancata conoscenza del funzionamento dei comportamenti innati poteva portare a risultati opposti a quelli auspicati, finendo per favorire proprio l’innesco di comportamenti deleteri per la pacifica convivenza. Sostenendo l’impermeabilità di fondo ai condizionamenti ambientali degli istinti basilari dell’uomo come di tutte le specie animali, Lorenz vuole evidenziare così le illusioni insite nella convinzione secondo cui l’educazione e la trasformazione dell’assetto politico-sociale sarebbero di per sé sufficienti a modificare e plasmare i comportamenti umani. E questo non perché egli negasse ogni valore alla cultura o alla dimensione spirituale dell’uomo, quasi a volerlo ridurre a un animale tra i tanti e per ciò vincolato esclusivamente ai suoi istinti. Alieno da ogni visione irenistica e bucolica dell’uomo così come della natura in genere, critico di ogni antropologia che risentisse del mito rousseauiano del “buon selvaggio”, egli sottolineò piuttosto come la “pseudospeciazione culturale” tipica della specie umana ha portato i gruppi umani – siano essi i clan, le tribù, le etnie o le moderne nazioni - una volta raggiunto un determinato grado di differenziazione reciproca, a relazionarsi in modo molto simile a quello delle specie animali più evolute, specie tra le quali, come accennato sopra, la conflittualità intraspecifica gioca un ruolo fondamentale all’interno dei processi adattativi. Lorenz evidenzia come diversi comportamenti risalenti a fattori culturali rivelino una fenomenologia sorprendentemente simile a quelli di origine genetica, facendo risaltare così una certa convergenza tra le dinamiche animali e quelle umane, convergenza che in fenomeni come non solo l’aggressività, ma anche ad esempio la territorialità, l’imprinting, il gioco ed i riti risalta con chiarezza.


E’ soprattutto però con opere quali Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, del 1973 e Il declino dell’uomo, del 1983, che le problematiche del proprio tempo e la critica alle convinzioni ed alle ideologie dominanti diventano i temi centrali della sua ricerca; temi che, comunque, continuano a trovare ampio spazio anche nelle opere a contenuto scientifico di questo periodo. Tra queste ricordiamo L’altra faccia dello specchio, del 1973, dedicata alla disamina dei processi conoscitivi della specie umana da un punto di vista storico-evoluzionistico, Natura e destino, del 1978, dove viene ripreso il confronto tra innatismo e ambientalismo, e Lorenz allo specchio, scritto autobiografico del 1975. Nel 1973, intanto, tra le ennesime e strumentali polemiche scatenate in particolare dagli ambienti culturali di sinistra, viene insignito, come accennato, del Premio Nobel per la fisiologia e la medicina, unitamente ad altri due etologi, Nikolaas Tinbergen e Karl Ritter von Frisch. Pur di infangare la sua figura, non bastando le meschine accuse già rivoltegli in occasione de Il cosiddetto male, per l’occasione vennero tirati in ballo presunti atteggiamenti di condiscendenza verso il regime nazista, strumentalizzando ad arte tesi espresse a suo tempo in merito all’eugenetica. In realtà, ciò che non gli veniva perdonato erano le posizioni controcorrente verso i miti progressisti-rivoluzionari così prepotentemente in voga nel clima caldo degli anni settanta, così come il temperamento libero e non curante verso il “politicamente corretto”, che lo portavano a confrontarsi senza pregiudizi con gli ambienti intellettuali più disparati, come dimostra l’attenzione mostrata verso il GRECE, il “Gruppo di ricerca e studio per la civilizzazione europea”, fondato in Francia da Alain De Benoist, dalla cui collaborazione nacque anche un libro-intervista pubblicato nel 1979 con il titolo Intervista sull’etologia. Sempre nel 1973 si stabilì ad Altenberg, in Austria, assumendo la direzione del Dipartimento di sociologia animale dell’Accademia Austriaca delle Scienze. Tra le altre più significative opere ricordiamo L’etologia (1978), vasta sintesi del suo pensiero etologico, e i due libri-intervista Salvate la speranza (1988) e Il futuro è aperto (postumo del 1996, in collaborazione con il filosofo Karl Popper), in cui torna ad affrontare anche tematiche più specificatamente filosofico-sociali.


Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, destinata a diventare una delle sue opere più note, vuole essere un’analisi delle cause della decadenza della civiltà e dei pericoli che incombono sull’umanità. Come il successivo Il declino dell’uomo, è un’opera intrisa di un cupo pessimismo, a volte radicale, pessimismo che in seguito lo stesso Lorenz avrebbe ritenuto esagerato. Gli otto “peccati capitali” della civiltà sarebbero a suo dire i seguenti: l’abnorme aumento della popolazione mondiale; la devastazione dell’ambiente; la smisurata competizione economica tra gli individui; l’affievolirsi dei sentimenti; il deterioramento del patrimonio genetico; l’oblio della tradizione; l’omologazione culturale; la proliferazione nucleare. Come vediamo, si tratta di “peccati” ancor oggi all’ordine del giorno e con i quali l’attuale umanità continua a fare i conti, ma che al tempo di Lorenz ancora non venivano individuati e denunciati come tali in tutta la loro gravità. Addirittura tali “peccati” rischiano per Lorenz di portare l’umanità verso l’estinzione. Questa visione apocalittica gli è suggerita, secondo un’ottica seguita un po’ in tutte le sue opere, dal parallelo che egli istituisce con il mondo dell’evoluzione animale e naturale in genere. Più che eventi causati da specifici accadimenti storico-sociali, essi vengono letti infatti quali veri e propri fenomeni degenerativi dell’evoluzione umana: come avviene per molte specie viventi che, ad un certo punto della propria storia evolutiva, imboccano un vicolo cieco avviandosi verso l’estinzione, lo stesso sembra stia accadendo per la specie umana. “Quale scopo – si chiede Lorenz – possono avere per l’umanità il suo smisurato moltiplicarsi, l’ansia competitiva che rasenta la follia, la corsa agli armamenti sempre più micidiali, il progressivo rammollimento dell’uomo inurbato? A un esame più attento, quasi tutti questi fatti negativi si rivelano però essere disfunzioni di meccanismi comportamentali ben determinati che in origine esercitavano probabilmente un’azione utile ai fini della conservazione della specie. In altre parole, essi vanno considerati alla stregua di elementi patologici”. Al di là delle legittime perplessità e delle riserve che una simile chiave di lettura – vincolata ad un’impostazione in ultima analisi biologista ed naturalista dei processi storico-sociali – può suscitare, l’opera di Lorenz rappresenta una delle più lungimiranti e pionieristiche denuncie della società moderna, di cui vengono con vigore demistificati i miti ed i valori fondanti. Fenomeni che secondo la tradizione del pensiero moderno venivano considerati quali espressione della più intima natura umana – la competizione economica, la ricerca del benessere materiale, l’indefinito progresso tecnologico – vengono denunciati, al contrario, quali vere e proprie “patologie”, che stanno allontanando sempre più l’uomo dalla sua vera essenza, riducendolo a mero strumento delle forze tecno-economiche da egli stesso messe in moto. “La competizione tra gli uomini – afferma – che promuove, a nostra rovina, un sempre più rapido sviluppo della tecnologia, rende l’uomo cieco di fronte a tutti i valori reali e lo priva del tempo necessario per darsi a quella attività veramente umana che è la riflessione”. Estraniatosi dal mondo e dai ritmi della natura, l’uomo vive ormai in una nuova dimensione puramente artificiale, dove sono le leggi ed i ritmi della tecnica a regolare la sua vita. Ciò ha condotto a stravolgere l’identità e la specificità stesse dell’uomo, con il progressivo inaridimento dei sentimenti e delle emozioni, l’estinzione del senso estetico, la distruzione delle tradizioni e delle istituzioni che avevano da sempre regolato la convivenza umana prima dell’avvento della società industriale. Lorenz arriva a sostenere che la situazione dell’umanità contemporanea può essere paragonata a quella delle specie animali allevate ed selezionate a scopi produttivi, presso le quali l’addomesticamento ha determinato una vera e propria alterazione dei loro caratteri naturali.


In tal senso, Lorenz pone le basi per un ambientalismo che, non limitandosi a denunciare la perturbazione degli ecosistemi o la devastazione dell’habitat naturale dell’uomo, mette l’accento sulla necessità di recuperare un’esistenza più conforme ai dettami ed ai limiti della natura; natura accettata e fatta propria anche nella sua dimensione tragica e dolorosa. Il progetto della modernità di voler bandire il dolore e la fatica dal mondo è visto infatti da Lorenz come una vera e propria iattura: “il progresso tecnologico e farmacologico favorisce una crescente intolleranza verso tutto ciò che provoca dolore. Scompare così nell’uomo la capacità di procurarsi quel tipo di gioia che si ottiene soltanto superando ostacoli a prezzo di dure fatiche”. Nella società del benessere e del comfort “l’alternarsi di gioia e dolore, voluto dalla natura, si riduce a oscillazioni appena percettibili, che sono fonte di una noia senza fine”, noia che è alla base di quella illimitata ricerca del “piacere” – che della “gioia” è solo la caricatura parossistica - su cui fa leva la società dei consumi. In tal senso Lorenz, che si impegnò spesso anche sul piano delle battaglie concrete intervenendo nei dibattiti pubblici e partecipando a molte iniziative ambientaliste, espresse anche posizioni controcorrente e trasversali rispetto a certo ambientalismo anche oggi prevalente, difendendo, ad esempio, la legittimità della caccia, e battendosi invece contro l’aborto, ritenuto una pratica innaturale. Al tempo stesso prese le distanze da ogni naturalismo inteso quale ritorno ad utopici quanto irrealistici “stati di natura”, in quanto vedeva la dimensione culturale e spirituale come consustanziale all’uomo, che privato di essa sarebbe privato quindi della sua “natura” più autentica. Lo stesso studio del mondo animale, che ha impegnato tutta la sua vita, non è stato mai inteso da Lorenz in senso puramente tecno-scientifico: “vorrei dire innanzitutto che io non ho cominciato a tenere degli animali perché ne avevo bisogno per scopi scientifici: no, tutta la mia vita è stata legata strettamente agli animali, fin dalla prima infanzia… Crescendo ho allevato gli animali più diversi… Mi sono comportato sempre in questo modo: per conoscere a fondo un animale superiore, ho vissuto con lui. L’arroganza di certi scienziati moderni, che credono di poter risolvere tutti i problemi studiando un animale soltanto a livello sperimentale, è stata sempre estranea alla mia mente”. Più che il canonico approccio “scientifico”, quello di Lorenz sembra essere, almeno nelle sue finalità ultime e al di là dei suoi fondamenti epistemologici, un atteggiamento di tipo “intuitivo”, volto ad una comprensione complessiva dei fenomeni naturali e alieno da ogni visione meramente sperimentale e quantitativa. Ciò che davvero gli interessava era alla fine risensibilizzare l’uomo moderno al legame simpatetico con il mondo degli animali e della natura in genere, legame andato quasi completamente perduto per l’uomo civilizzato. Questi paga tale perdita anche con l’estinzione del senso estetico, che per Lorenz si lega strettamente al contatto con l’incredibile varietà della forme naturali e la grandezza della creazione che sovrasta l’uomo. Per Lorenz i sentimenti estetici sono infatti parte del patrimonio genetico dell’umanità, e hanno svolto anch’essi, quindi, un compito importate nel corso dell’evoluzione umana ai fini adattativi; mentre oggi l’uomo si va pericolosamente assuefacendo al “brutto” che domina incontrastato nelle nostre metropoli, dove ogni senso della bellezza sembra essersi obliato. La disarmonia che caratterizza la vita del moderno uomo inurbato si lega ad un altro infausto fenomeno, quello della sovrappopolazione, che Lorenz non vede solo nell’ottica economicistica - anche oggi spesso prevalente nei movimenti ambientalisti e terzomondisti - dello squilibrio tra risorse disponibili e popolazione, ma sempre in rapporto a dimensioni “esistenziali” più profonde, ancora una volta suggeritegli dagli studi etologici. Come ogni specie vivente ha bisogno, in base all’istinto di territorialità, di un suo ben delimitato “spazio vitale” (inteso in senso “psicologico” e non solo materiale), anche l’uomo difficilmente può adattarsi a vivere tra folle anonime di individui sconosciuti, dato che il forzato contatto ravvicinato e permanente con “estranei” genera inevitabilmente tensione ed aggressività, favorendo l’insorgere di quelle patologie tipiche della modernità quali stress e nevrosi.


La radicale critica della società moderna portò Lorenz a scontrarsi violentemente con la cultura progressista che monopolizzava il dibattito intellettuale degli anni sessanta e settanta ed ispirava i movimenti politici alternativi di quegli anni, movimenti che auspicavano una “rivoluzione” che andava, per molti aspetti, nel senso contrario a quello indicato da Lorenz. Critico verso ogni ottimismo progressista che esaltasse “le magnifiche sorti e progressive” dell’era della tecnica, Lorenz denunciò con altrettanto vigore l’ideologia del “nuovismo”, che egli considerava espressione di puro infantilismo, dato che è tipico dei bambini l’ingenuo entusiasmo verso tutto ciò che si presenta come “nuovo”. Contro i miti contestatari giovanili, Lorenz difese invece le tradizioni, la cultura e le strutture sociali sulle quali si erano funzionalmente rette le comunità e le società del passato, con accenti che non ci aspetteremmo da uno scienziato del XX secolo, come difese il principio di autorità nei processi educativi, vedendo in tutto ciò il portato di dinamiche socio-adattative coerenti con i dettati dell’evoluzione naturale. Lo stesso concetto di “rivoluzione” era del resto vivacemente contestato da Lorenz, dato che “la natura non fa salti” e che l’evoluzione procede per passi lenti e spesso impercettibili. Per questo l’incomprensione generazionale tra padri e figli che caratterizzava quegli anni era da lui vista come un fenomeno deleterio e pericoloso per un armonioso sviluppo della società. La stessa valorizzazione della fatica e della sofferenza andava contro le spinte moderniste di gran parte del movimento contestatore, che le considerava assurde sopravvivenze di secoli oscuri che grazie al progresso della tecnica e allo sviluppo economico l’uomo si sarebbe lasciato completamente alle spalle, essendo la liberazione dal dolore e il perseguimento del benessere “diritti” inalienabili che a tutti dovevano essere garantiti. Indifferente alle critiche che gli venivano mosse, forte delle sue convinzioni, Lorenz non si peritò di mettere in discussione lo stesso principio dell’uguaglianza tra gli uomini, che egli vedeva come una malsana distorsione del legittimo riconoscimento dell’eguale dignità di ogni uomo così come di ogni essere vivente. Secondo Lorenz l’egualitarismo, unito a quella che egli chiama la dottrina “pseudo-democratica” di ispirazione comportamentista secondo cui sarebbe possibile cambiare gli uomini a piacimento se solo si muta il contesto ambientale in cui essi si trovano a vivere, altro non è che un falso mito espressione della progressiva omologazione culturale che caratterizza la società moderna; omologazione di cui egli individuava le responsabilità nello strapotere del mercato, delle multinazionali e dei mezzi di comunicazione di massa. Il mondo moderno è caratterizzato da “una uniformità di idee quale non si era mai vista in nessun’altra epoca della storia” – sottolinea Lorenz - a tutto detrimento del pluralismo culturale, che, quale espressione del più vasto fenomeno naturale della diversità biologica, è un patrimonio da salvaguardare come uno dei cardini su cui si reggono l’evoluzione e la possibilità di riproduzione della vita stessa. Lorenz ritiene pertanto l’ineguaglianza un fattore costitutivo della natura, senza il quale essa perderebbe la sua forza creativa ed espansiva, non solo in termini biologici, ma anche e soprattutto a livello sociale e culturale, in quanto è proprio “l’ineguaglianza dell’uomo – affermò - uno dei fondamenti ed una delle condizioni di ogni cultura, perché è essa che introduce la diversità nella cultura”. Allo stesso modo egli individuava già allora nella perniciosa influenza della cultura americana le origini dei mali che attanagliavano l’umanità: “le malattie intellettuali della nostra epoca – sostiene - usano venire dall’America e manifestarsi in Europa con un certo ritardo”, così come al dominio delle ideologie egualitarie e pseudo-democratiche “va certamente attribuita una gran parte della responsabilità per il crollo morale e culturale che incombe sugli Stati Uniti”.


Figura proteiforme, difficilmente inquadrabile secondo gli schemi consueti, Lorenz visse profondamente le forti contraddizioni e i radicali cambiamenti che caratterizzarono il suo tempo. La sua complessa disamina della società moderna, intrisa di un così esasperato pessimismo, sfugge anch’essa a facili classificazioni, suscitando spesso sbrigative prese di distanza così come semplicistiche ed entusiastiche adesioni. Se il parallelismo che egli pone tra i processi evolutivi del regno animale e le dinamiche storico-sociali può lasciare perplessi, prestando il fianco ad accuse di riduzionismo biologista, lo sfidare gli apologeti del progresso tecno-scientifico sul loro stesso terreno dell’argomentazione positiva spiazza molti dei suoi detrattori. Anche i suoi toni a volte apocalittici possono sembrare eccessivi ed ingiustificati; ma non bisogna dimenticare che Lorenz scriveva in un periodo in cui i problemi da lui diagnosticati stavano per la prima volta presentando i loro risvolti devastanti su scala planetaria, senza che si fosse ancora sviluppata una forte sensibilità condivisa verso di essi. Come accennato, Lorenz stesso rivide progressivamente alcune delle sue posizioni e ritenne non più giustificabile il radicale pessimismo che aveva espresso, costatando come le tematiche su cui aveva richiamato l’attenzione fin dagli anni sessanta erano sempre più al centro del dibattito culturale e ormai nell’agenda di impegni di molti gruppi e movimenti politici e ambientalisti. “Colui che credeva di predicare solitario nel deserto, parlava, come si è dimostrato, davanti ad un uditorio numeroso ed intellettualmente vivo” - riconosce Lorenz, e “i pericoli della sovrappopolazione e dell’ideologia dello sviluppo vengono giustamente valutati da un numero rapidamente crescente di persone ragionevoli e responsabili”. Per questo Lorenz finì per prendere le distanze dai “catastrofisti”, da coloro che credevano possibile figurarsi con certezza l’avvenire dell’umanità predicando la sua prossima fine, dato che, come recita il titolo del succitato libro scritto con Karl Popper, il “futuro è aperto”, e l’irriducibilità ad ogni possibile determinismo costituisce pur sempre la cifra dell’uomo e della storia. Se il futuro è certamente aperto e la critica all’ideologia sviluppista non è più patrimonio di isolati predicatori nel deserto, è pur vero, però, che molti dei “peccati della civiltà” stigmatizzati da Lorenz restano ancor oggi impuniti, se non si sono addirittura aggravati. Di fronte alla sua disamina, si ha anzi l’impressione, a volte, che molte delle sue riflessioni e degli allarmi lanciati appaiano scontati e banali; e ciò non perché l’odierna umanità abbia risolto o quanto meno imboccato la strada giusta per risolvere i mali denunciati, ma - ed è quel che è più disperante - semplicemente perché vi si è ormai assuefatta. Ecco perché, al di là di quanto è stato fatto o resta da fare, e al di là dei giudizi e dei convincimenti di ciascuno, riteniamo quanto meno indispensabile e di grande attualità, oggi, la rilettura della sua opera.

Stefano di ludovico su opice


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